La relazione che cura

Il termine counseling deriva dall’inglese counseil e può essere tradotto non solo nel suo significato di “consigliare”, ma anche nell’accezione di “aver cura, venire in aiuto”. Il termine è stato originariamente introdotto da F. Parsons nel 1908 ed poi utilizzato da Carl Rogers: «Il Counselling è una relazione in cui almeno uno dei protagonisti ha lo scopo di sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L’altro può essere un individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggior possibilità di espressione». Questa attività circoscritta, delimitata, orientata a soluzioni che riguardano il momento attuale, il “qui ed ora”.

Il principio cardine della teoria rogersiana si basa su una profonda analisi del concetto di relazione interpersonale e dell’importanza fondamentale che questa assume nel processo di cura. L’attenzione viene spostata dalla risoluzione del problema al facilitare l’emersione delle risorse interiori dell’individuo: ognuno ha dentro di sé le risorse necessarie per raggiungere il modo adeguato di agire ed il counseling si propone di promuovere la crescita, lo sviluppo e di favorire una valorizzazione maggiore di tali risorse personali e una più ampia possibilità di espressione. Si accoglie un bisogno, si risponde ad una crisi, ad un momento di smarrimento, di saturazione, di rottura di un equilibrio: pensiamo ad un lutto, alla vedovanza, alle separazioni, ad una malattia cronica, ad un malato terminale, a coloro che li assistono, alla perdita di un lavoro.

Questo il teatro dell’azione del processo di aiuto, di relazione “che cura”: il macro-disagio socioculturale che trasversalmente permea le nostre società al quale occorre rispondere facendoci direttamente carico del disagio che si presenta a livello micro, nella vita concreta delle persone che ci stanno accanto e ci sono affidate, nella singolarità delle situazioni uniche che ci sfidano, nelle relazioni interpersonali, nelle nostre piccole comunità di appartenenza. Le persone in difficoltà, gli adolescenti rintanati nelle loro stanze o in piccoli gruppi, in ambiti sempre periferici, emarginati, al di fuori dei limiti che troppo facilmente siamo soliti assegnare alla cosiddetta “normalità”. Tante sono le biografie – anche scolastiche – segnate da cicatrici e fratture profonde e spesso trascurate, dimenticate, perfino rifiutate. Accogliere significa far emergere la pietra preziosa che c’è in ciascuno di loro e comprendere quell’intimo disagio, quella sofferenza esistenziale che si esprime anche come difficoltà ad essere soggetto, protagonista, nella complessa trama delle relazioni io-tu-noi-mondo: l’accompagnamento-counseling dovrebbe far in modo che chi vive qualsiasi disagio trovi in se stesso e nella relazione, la forza di reagire e di imboccare nuovi percorsi.

Il Consultorio, per sua vocazione intrinseca, raccoglie questa sfida e si conferma essere luogo deputato per eccellenza allo svolgimento di supporto, di accompagnamento nel promuovere come primario obiettivo la migliore autonomia della persona affinché sia in grado di affrontare la vita da protagonista consapevole. Il termine stesso Consultorio, nella sua più immediata accezione, non fa pensare ad un luogo clinico di diagnosi o di terapia, ma rimanda piuttosto ad un luogo a cui si accede per consultarsi, da protagonisti e non da pazienti, per situazioni o difficoltà che rientrano nelle circostanze ordinarie prima che nella patologia vera e propria. Intendere il consultorio in questo modo significa dare spazio al sostegno dei singoli, delle coppie, delle famiglie: accogliere la “persona” nella sua interezza, ricevere le situazioni ricorrenti nella vita delle persone e delle famiglie, momenti di “crisi”, nella duplice accezione di difficoltà e di passaggio, suscettibili di evolvere in termini positivi di superamento, oppure in termini negativi.

Chi accoglie e sostiene è disponibile all’ascolto empatico, che significa «mi rendo conto del suo dolore… di un ‘nuovo’ dolore, suo, mai provato da me» e proprio a partire da questa partecipazione profonda all’altro, assume la sua sofferenza, la sua vulnerabilità. Non si lascia vincere dalla tentazione dell’evitamento, cadendo nell’indifferenza o in altre forme di negligenza. Non desiste ma resiste, perché sa che questa forma, anche estrema, di resistenza permette all’altro di ri-esistere. Non si chiude in una comoda immunità (immunitas) ma si fa carico dell’altro, degli altri, della comunità (communitas). Communitas è il contrario di immunitas.

In sostanza si tratta di abbandonare i paradigmi della disperazione per abbracciare quello della rinascita, cioè quello della fraternità.
A conclusione, una citazione che rinvia all’essenza stessa del Consultorio quale simbolo di accoglienza e accompagnamento, contenitore privilegiato delle diverse istanze sociali, luogo di “relazione” in continuo divenire rispetto ad un sapere mai scontato al servizio dell’altro: «Noi siamo una relazione: Io sono una relazione. è la definizione più bella dell’essere Umano».