Lingua

La prevalenza dei verbi

Con un po’ di fantasia e di intraprendenza, le licenze linguistiche opportunamente usate diventano linguaggio efficace.

Quando un paio di settimane fa un corto circuito mediatico ha riempito le pagine dei giornali con la presunta apertura dell’Accademia della Crusca all’uso non ortodosso dei verbi intransitivi usati come transitivi (esempio arcinoto: “scendi il cane”), si è assistito a una sommossa popolare mai vista. Nemmeno ai tempi del celebre “petaloso”. Sì, perché in fondo l’attributo di un fiore è pur sempre un aggettivo, una qualità suscettibile di interpretazione, ma i verbi sono una cosa ben più seria.

Non è difficile comprendere il perché: il verbo è la colonna portante delle nostre frasi. La prima volta che abbiamo usato un verbo è stato anzitutto per definirci: io sono. Dopodiché è arrivata l’urgenza di comunicare le nostre azioni, quelle basiche: fare, andare, mangiare, dormire. Il verbo sostiene e regge il discorso, che altrimenti risulterebbe privo di senso senza l’indicazione dell’azione compiuta, il soggetto che la compie, i destinatari. Insomma, con buona pace dei narcisisti, persino dopo “io” ci vuole quel qualcosa che spieghi che cosa fa, quell’io.

Un convinto assertore della prevalenza dei verbi è Francesco. Il Papa del movimento e dell’agire, quello che invita i giovani a non “balconear” la vita, sa che i verbi definiscono soprattutto un atteggiamento e che, allo stesso tempo, in un breve elenco coniugato all’infinito (nel senso del modo verbale, non della ripetizione eterna) risultano facilmente memorizzabili. Così li usa spesso per indicare un percorso. Ha cominciato nella prima omelia da Pontefice, era il 14 marzo 2013: camminare, edificare-costruire, confessare. Nell’ottobre dello stesso anno è in visita pastorale ad Assisi: ascoltare, camminare, annunciare fino alle periferie. Altri tre sono stati consegnati nel 2014 all’Azione Cattolica: rimanere, andare, gioire. Cinque quelli del Convegno ecclesiale di Firenze 2015: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Nel 2016 i tre verbi chiave di Amoris laetitia: accompagnare, discernere e integrare. Alla Famiglia Vincenziana, nell’ottobre 2017: adorare, accogliere, andare. Quattro quelli per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Vedere, camminare, offrire, sono invece i tre verbi dei Magi nell’omelia dell’Epifania 2018. E ancora tre i “verbi del Pastore” dell’Angelus del luglio 2018: vedere, avere compassione, insegnare. Celebrare, accompagnare, testimoniare: quelli rivolti a clero, religiosi e seminaristi durante la visita a Palermo nel settembre 2018. E via cercando.

Un invito all’azione che non può lasciare indifferenti. Anche perché c’è un’altra caratteristica a definire questa indispensabile parte del discorso: da ogni verbo hanno origine delle domande che richiedono una risposta. Ci si può pure chiedere chi sia chiamato a rispondere alle sollecitazioni del Papa, ma trattandosi di infinito presente, è lecito per ciascuno di noi aspettarsi di essere l’interlocutore qui e ora. E darsi da fare in proposito per coniugare il tempo giusto.

Anche perché, con un po’ di fantasia e di intraprendenza, le licenze linguistiche opportunamente usate diventano linguaggio efficace. Per dire, persino quel pasticcio dei verbi (in)transitivi è riuscito ad avere una sua utilità. Nei giorni della Sea Watch e dei migranti bloccati a bordo, un grande striscione esposto sulla riva siciliana ha sbancato i social network. Stavolta il verbo era giusto: #scendeteli.

Emanuela Vinai per il Sir