La nevrosi di “Birdman”

Prova d’autore del regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu

Il cinema americano, fin dalla sua nascita, è stato sempre aperto all’apporto di registi provenienti da altre nazioni. Basti dire che la grande Hollywood, quella che all’incirca va dagli anni Trenta con l’introduzione del sonoro fino agli anni Cinquanta, si è servita dello sguardo di tantissimi autori europei. Si potrebbe azzardare, addirittura, che sono stati propri questi registi del vecchio continente a fare grande il cinema americano. Ernst Lubitchs, Fritz Lang, Billy Wilder sono solo alcuni dei nomi più famosi di questi artisti che scapparono da un’Europa in guerra, sottomessa ai totalitarismi, e trovarono a Hollywood il posto giusto per continuare le loro carriere artistiche.

Anche oggi il cinema hollywoodiano è aperto alla contaminazioni, ma più che dall’Europa, è dal Sud America che stanno arrivando una serie di registi che hanno dato nuova linfa vitale alla narrazione cinematografica statunitense. Su tutti si possono citare Alfonso Cuaron, che con il film di fantascienza “Gravity” ha conquistato anche 7 Oscar, e Alejandro Gonzales Inarritu che con “Birdman”, in questi giorni nelle sale italiane, ha buone possibilità di emulare il collega. La pellicola è, infatti, candidata a ben 10 Premi Oscar ed è data tra le favorite per la vittoria come Miglior Film. Riggan Thompson è una star che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità non gli basta, Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore. Decide allora di lanciarsi in una folle impresa: scrivere l’adattamento del racconto di Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, e dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway. Nell’impresa vengono coinvolti la figlia ribelle Sam, appena uscita dal centro di disintossicazione, l’amante Laura, l’amico produttore Jake, un’attrice il cui sogno di bambina era calcare il palcoscenico a Broadway, un attore di grande talento ma di pessimo carattere. Riuscirà Riggan a portare a termine la sua donchisciottesca avventura? Dopo il tuffo negli abissi della disperazione di “Biutiful”, che non aveva ottenuto successo con il grande pubblico, Inarritu si cimenta con un genere generalmente di grande popolarità: la commedia, benché l’atmosfera sia agrodolce e in alcuni tratti quasi nera. E le novità non riguardano solo questo tono “scuro”, ma si riflettono anche sulla scelta dello stile per mettere in scena la storia.

Se il tema principale è, infatti, l’ego, in particolare quello maschile, Inarritu scandaglia l’animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima: cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all’interno dei quali gli attori recitano senza interruzioni come su un palcoscenico teatrale, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l’azione alla strada, e dentro e fuori i camerini, i corridoi, il backstage del teatro stesso. È un esperimento in linguaggio cinematografico coraggioso, ridondante, eccessivo ma funzionale. Inarritu racconta l’uomo (e in particolare il maschio) nella sua fragilità e contraddizione, nei suoi sogni di gloria e le sue delusioni di vita. Racconta la presunzione, ma anche la vulnerabilità, di ogni artista, o anche di chi crede di esserlo ed è costretto a confrontarsi con l’evidenza contraria. Inoltre attraverso lo sguardo di Riggan, il regista ci invita a riflettere su tutta la società contemporanea, sull’impoverimento culturale in corso e sull’ossessione dei social media, creatori di una nuova forma di ambizione, quella di diventare i più cliccati, che è in realtà una nuova forma di delusione, disturbante ed inquietante.