La necessità della parola

Intensa prova d’autore per Erri De Luca, con la sua “Storia di Irene”

“Chiese all’anziano come stava. ‘Come uno che è passato a piedi sul Mar Rosso’”.

Storia di IreneUn ebreo e alcuni soldati sbandati che cercano la salvezza dai tedeschi dopo l’otto settembre si trovano su una barca: stanno attraversando il mare e la notte per raggiungere Capri, liberata dagli americani, sapendo che potrebbe essere l’ultima notte della loro vita. Raggiunta la salvezza, l’ebreo “clandestino da duemila anni” riscopre gli abissi inspiegabili della Parola. Nonostante la dura distanza tra di essa e i nudi e tragici fatti di una storia, anche essa apparentemente inspiegabile per la mancanza di senso racchiusa nel sacrificio di milioni di Isacco, la fine del racconto di Erri De Luca, “Il cielo in una stalla”, all’interno di “Storia di Irene” (Feltrinelli, 109 pagine) sembra alludere ad una salvezza. Non quella pacificante e beata di tante fiction, ma quella della lotta con l’angelo. Questo racconto (dei tre che compongono l’ultima fatica dello scrittore napoletano) non guarda alla pace come termine della lotta, ma come comprensione della intima necessità di essa. Ci attende un inquietante angelo su ognuna delle soglie che dobbiamo oltrepassare, sembra suggerire l’anziano traversatore del nuovo mar Rosso. Al narratore che interrompe la sua preghiera chiedendogli perché usa i tempi al passato (“ci hai salvato dalla mano di ogni nemico”) egli infatti risponde che “per tirare lontano la tua freccia devi prendere la tua corda e tenderla più indietro che puoi. Così fa pure la preghiera, una specie di freccia”.

Il confronto con un’altra forma del non dicibile, la bellezza assoluta nel racconto che dà il titolo al libro e poi l’isolamento della vecchiaia e la morte in “Una cosa molto stupida”, citazione della lirica di un poeta “maledetto” (seppure attraversato da una violenta e inestinguibile carica religiosa) dimenticato che bisognerà riscoprire, Emanuel Carnevali, sono il centro degli altri due racconti. Irene è una incarnazione dello spirito abissale e materno del mare, che era stata alla base dell’ispirazione dello stupendo racconto “La sirena” di Tomasi di Lampedusa. Non può essere “educata” alla vita di ogni giorno, perché non appartiene alla comunità di uomini che hanno perduto il rapporto con la grande madre e anzi si sono rivolti contro di essa uccidendo le altre creature da lei generate: “È la bellezza pura che sta entrando in mare, illesa da lusinghe di futuro, senza un saluto indietro, come un serpente con la vecchia pelle”.

L’anziano che va a morire da solo, consolato dalle due realtà che lo avevano guidato dalla placenta (il mare) al cammino verso l’alto (il sole) conclude il libro. L’uomo giunto alla fine dei suoi giorni è escluso dalla famiglia, perché ormai di troppo nella sua economia. La lotta per la sopravvivenza non è cessata, sembra dire questa storia. Ancora una volta assume le forme della lotta per lo spazio vitale, non più quello novecentesco, ma dell’economia familiare. Forma che appare ancor più tremenda, perché dovrebbe invece assumere le dimensioni dell’amore all’anziano che ha sacrificato i suoi giorni per la vita dei figli e della loro famiglia.

De Luca non usa eufemismi: gli effluvi, l’esiguità del cibo, l’eccessiva concentrazione spaziale sono narrati senza mascheramenti. Questa fermezza della narrazione che tiene conto della totalità dell’esistente in tutte le sue manifestazioni, non riesce e non vuole nascondere l’altra necessità storica, quella della presenza dell’altro nei giorni umani. Una presenza che non viene taciuta e nemmeno accentuata nell’economia narrativa, ma allusa nei suoi continui richiami ad una parola che non ha mai smesso di attraversare gli orizzonti delle genti.