La musica protagonista

Nel nuovo libro di Erri De Luca, senza distinzioni di stili, generi, epoche

“Per contrasto al Requiem ho scritto una Resurrezione, armeggiando intorno al capitolo 37 del libro del profeta Ezechiele, dove si svolge la più potente scena di massa di un ritorno alla vita, in una vallata di ossa diseccate. Dai quattro angoli dell’orizzonte si avventano turbini che ricompongono i corpi. Quel capitolo ha l’energia del finimondo ma in direzione opposta: catapulta di vita”.

Sta qui il senso del nuovo libro di Erri De Luca, “La musica provata” (Feltrinelli, 98 pagine). La musica ne è la protagonista, senza distinzioni di stili, generi, epoche. Ma non solo musica: si ha l’impressione leggendo questo De Luca, che essa sia una parte di una ricerca più profonda di origini materne, di circolarità, in cui elementi religiosi e umani tentano la ricomposizione.

In “La musica provata” si parla dei salmi come di Bob Dylan o della canzone popolare napoletana. Ma in fondo si sente anche il suono apparentemente inarticolato, indistinto, delle radici, che attingono linfa dagli inizi, dalle Scritture, che De Luca conosce bene per le sue traduzioni, e che poi si perdono nella placenta dell’origine assoluta.

De Luca, lo scrittore lo afferma anche qui, non è credente, ma, come direbbero alcuni esperti di semiotica testuale, è l’opera che parla al suo posto quando questa è a contatto con la lettura dell’altro, al di là di programmi e dichiarazioni certamente sincere, ma che non sono il testo poetico, narrativo, diaristico che si voglia. Il testo di una poesia o di un racconto va per strade proprie che non quelle dei programmi coscienti e delle dichiarazioni razionali. Qui infatti emerge, ancora una volta, un humus fortemente religioso anche se a-confessionale. E però capace di trarre linfa e attenzione dal sacro, soprattutto quando esso si fonde con la realtà di ogni singolo luogo.

De Luca assiste alla celebrazione della Messa in Tanzania, non solo per curiosità turistica: “Durava tre ore la messa. Restavano in piedi la gran parte del tempo, qualche volta si accovacciavano sui talloni. Tre ore di canti che non lasciavano in pace i corpi: al ritmo ondeggiavano, la braccia salivano in alto, abbracciavano l’aria intorno, scendevano a prendere slancio”. Già in questa assenza di iattanza razional-occidentale, in questo non voler vedere il lato “selvaggio” e “superstizioso” di tanti colti delle nostre latitudini, vi è una testimonianza di onestà intellettuale e di apertura verso le manifestazioni del sacro. La musica e la danza sono parte integrante di esse.

C’è chi ha visto nella danza il tentativo di imitazione del movimento cosmico nelle popolazioni arcaiche, e De Luca non è distante da questa dimensione. Sta di fatto che il discorso autoriale precipita sempre e comunque verso la sfera del Numinoso: “Mungu (il nome del creatore nella lingua africana kiswahili) stava in quella radura, convocato senza possibilità di obiezioni da parte sua. Strumento di chiamata era la voce in canto di quell’assemblea”.

Come si diceva, il canto, in questo piccolo libro, non è solo il canto serio, lirico, alto. Non è tanto importante la tecnica, o il genere, sembrano dire queste pagine, ma l’atteggiamento di abbandono, di ascolto delle voci profonde dell’essere o dello spirito del tempo. Che non è solo nelle manifestazioni popolari in alcune zone del pianeta, ma è anche in alcuni autori diversissimi tra di loro, Murolo come Brassens, Brel come Dylan o Cohen, cui va la predilezione di De Luca. Anche qui la presenza del sostrato vetero-testamentario di Cohen non è casuale, essendo il cantautore canadese uno dei pochi a coniugare la solitudine d’occidente con le Scritture: “Ho sentito dire che Bob Dylan è stato proposto per il premio Nobel della letteratura. Il mio candidato è Leonard Cohen”.

De Luca ci accompagna in un percorso che molti, non solo quelli della sua generazione, hanno compiuto, dalla musica classica a Sergio Endrigo, da Modugno alla Baez, tra una Lili Marleen e una piantagione di tabacco dove, senza saperlo, gli schiavi iniziano a tracciare la strada del gospel, e soprattutto del blues, non solo dei deportati di allora, ma dei loro discendenti, i John Lee Hooker e i B. B. King e dei ragazzetti dell’ondata british che non si serviranno più del battito delle mani ma delle centinaia di watt sparati dalle chitarre elettriche.