La musica è uno spazio del dialogo

Si è concluso sabato 27 ottobre il primo “Sax, Wind and Bits”, festival di musica contemporanea proposto alla città di Rieti dall’Associazione NUME.

A lavori finiti abbiamo incontrato due degli organizzatori: Claudio Troiani e Luigi Pizzaleo, che è stato anche il direttore artistico della proposta e che ha risposto alle nostre domande.

Come andata?

Bene, siamo piuttosto soddisfatti da un po’ tutti i punti di vista. Siamo stati premiati dal pubblico, e questo non era affatto scontato. Anzi, per la dimensione di Rieti abbiamo avuto un pubblico sorprendente. Il nostro obiettivo non era riempire le sale, e infatti non è successo. Abbiamo però incontrato una presenza attenta, sinceramente interessata e comunque consistente nei numeri. Diverse persone hanno partecipato a più di un appuntamento. La cosa ci ha colpito: in fondo abbiamo lavorato davvero poco sulla comunicazione. In queste cose, oltre ai mezzi – e i nostri erano pochi – conta anche l’esperienza. Abbiamo affrontato l’allestimento del festival da esordienti totali: come musicisti e come tecnici siamo professionisti, ma come organizzatori siamo dei dilettanti. Eppure, in qualche modo siamo riusciti a fare fronte anche ai vari problemi anche pratici. Ovviamente ci sono da ringraziare tante persone: se l’iniziativa è andata bene, è anche perché quanti sono stati sensibilizzati hanno tutti dato un contributo.

E musicalmente?

Siamo molto soddisfatti della qualità di ciò che abbiamo proposto. La nostra non è certo una offerta musicale consueta, immediata, “facile”. Ma forse, proprio per questo, la cosa più bella è stata la disponibilità all’ascolto che abbiamo riscontrato. La risposta del pubblico è stata per certi versi sorprendente. Non ci aspettavamo i numeri che abbiamo fatto. È stata una esperienza che ha rafforzato in noi la convinzione che se le persone non ascoltano determinate proposte musicali, a Rieti come altrove, in gran parte è perché non gli vengono proposte.

E dire che la musica è dappertutto! Però sembra essere sempre meno un fatto sociale. Dopo tutto gran parte degli ascolti si fanno tramite cuffiette e lettori digitali…

C’è una certa inerzia, anche istituzionale, che rende difficile per il musicista di avere l’occasione di incontrare il suo pubblico. A proposito della capacità di ascolto: di grande interesse durante il festival è stato il dialogo di tutti i musicisti con chi era in sala. Anticipando, descrivendo, spiegando le esperienze sonore che mano a mano andavano a realizzare, hanno trasmesso qualcosa che va molto al di là dei contenuti tecnici. Si è concretizzata una forte componente emotiva, nonostante la complessità della proposta…

Curioso per una musica “elettonica”, che di solito si pensa debba risultare fredda, tecnica, disincarnata!

Il fatto è che la digitalizzazione della musica ha aspetti contrastanti. È vero che apre ad una fruizione che a volte sembra quasi autistica: quella solitaria con gli auricolari. Ma al compositore offre la possibilità di allargare lo spazio e il linguaggio della musica. E poi guardiamo alle cose dal lato pratico: fino a pochi anni fa per incidere un disco occorreva necessariamente un casa discografica. Ci voleva il sostegno di un vero e proprio impianto industriale. La rete e le nuove tecnologie hanno cambiato sensibilmente le cose. E in qualche modo si può trovare un canale grazie ad internet. Non a caso il web è stato centrale per finanziare la nostra iniziativa.

D’accordo, ma dal punto di vista della produzione musicale vera e propria, qual è il ruolo di elettronica ed informatica?

Per me è ovviamente un discorso di parte. Da compositore elettronico tengo all’informatica come il violoncellista tiene al violoncello. Quello che mi sembra di poter dire in generale è che oggi i mezzi informatici permettono un approccio al suono e alla musica paragonabile al complesso delle arti visive. La tecnologia applicata alla composizione permette letteralmente di modellare il suono. E non è l’unico dei discorsi possibili sulla relazione tra musica ed elettronica. Ad esempio l’informatica può avere una importanza decisiva nella didattica della creatività. Anzi, questo è l’obiettivo sul quale vorremmo maggiormente lavorare…

Qual è il ruolo della musica oggi?

Secondo me è più che mai un bisogno primario. È necessario ascoltarla, ma anche farla, e vale anche per chi non ne conosce la tecnica, i presupposti, gli sviluppi. Ci sono dei musicisti americani che, negli anni Sessanta, dissero che la musica è un diritto umano. Credo sia vero. E penso che condividere l’esperienza del fare musica, compreso il contatto con il pubblico, sia uno scopo in sé: non è necessario che risponda ad un’altra esigenza, che rappresenti qualcosa. Esiste la possibilità di un fare musica che non serve ad altro che a se stesso. Non sarà un’esperienza “utile”, ma è bella. E della bellezza c’è bisogno.

L’arte per l’arte?

In un certo senso è così. Un tempo i canti di lavoro, quelli di lotta, e così via, avevano maggior peso. La musica aveva una determinata dimensione funzionale. Oggi questi aspetti aggregati li abbiamo un po’ messi da parte. Con la tecnica o l’industrializzazione anche l’esperienza sonora è cambiata. È diventata paradossalmente più astratta. È una esperienza dell’intelligenza e dei sensi. Poi è chiaro che ci sono diversi livelli di approccio, ed è evidente che la musica di queste sere non può certo diventare qualcosa che accompagna ogni momento della vita. Non può funzionare da sottofondo: richiede attenzione, disciplina. Ecco forse il risvolto pratico: progettare musica comporta l’acquisizione di competenze da riutilizzare. E specularmente offre al pubblico l’accesso a diversi piani di consapevolezza, a nuove concezioni della forma e del contenuto. La musica è uno spazio del dialogo.