La Fondazione tra il dire e il fare

Durante lo scorso fine settimana, le cronache hanno dato vita ad un piccolo equivoco. Un quotidiano ha rivelato che la Fondazione Varrone avrebbe deciso di spostare altrove la “caciotta” di piazza San Rufo. L’articolo ha sollevato la solita polemica. Qualcuno ha colto l’occasione per rilanciare l’idea della Fondazione come “governo ombra” della città. Come può un soggetto privato decidere di rimuovere un monumento pubblico (per quanto brutto) da una pubblica piazza?

Infatti non può. Nel pomeriggio dello stesso giorno, l’Assessore al Decoro urbano Alessandro Mezzetti ha fatto ordine. Ha giustamente precisato di essere lui l’autore della storica decisione: la Fondazione Varrone ci mette solo i soldi!

Il caso è chiuso: l’autonomia di Assessore e Comune è salva e le solite chiacchiere sulla “longa manus” della Fondazione vengono stroncate sul nascere. O quasi.

Sì, perché la morale della storia sembra trovarsi nell’antica differenza tra il dire e il fare. In assenza di strumenti concreti, le decisioni rimangono pure fantasie.

L’Assessore rivendica una giusta strategia risanatrice. Da tempo ha intrapreso una titanica battaglia per purgare la città dalle incrostazioni dell’ultimo ventennio. Appena insediato ha fatto rimuovere le “bare” da via Roma e gliene siamo grati. Ma la sobrietà contabile di oggi avrebbe permesso al Comune di rimuovere la “caciotta” senza chiedere nulla a nessuno?

Mezzetti ha spiegato che la Fondazione Varrone non è intervenuta in alcun modo nel merito della decisione. Gli crediamo. Infatti l’influenza della Fondazione non sembra stare a valle, ma a monte della scelta. Si direbbe abbia stabilito i presupposti dell’operazione, con l’assessore libero di muoversi al loro interno. Libero di portare avanti una «serie di colloqui e confronti con la Fondazione» e di prospettarle «la possibilità di collocare il monumento nei pressi dell’attuale biglietteria dello Stadio».

Ovviamente stiamo parlando di un episodio marginale, quasi simbolico (ma si sa quanto siano importanti i simboli per il potere). Qualcuno dirà che l’alleanza tra Fondazione e Comune corrisponde ad un sano realismo. Al giorno d’oggi, per realizzare gli interventi, bisogna per forza prendere i soldi dove si trovano e mettersi d’accordo con chi li amministra.

Tuttavia nel nostro Paese il rapporto tra le Fondazioni Bancarie e l’ambito pubblico è da tempo soggetto a critiche. In tanti leggono il fenomeno come una infelice intromissione della politica nell’economia e dell’economia nella politica. Alcuni, ad esempio, lamentano che i membri degli organi di indirizzo delle fondazioni corrispondano prevalentemente a logiche politiche. Per lo più, infatti, provengono dagli enti locali – comuni, province, regioni, comunità montane. Qualcuno è scelto dalle Camere di Commercio, altri dalla Chiesa e dalle università. Queste nomine per cooptazione di solito risultano autoreferenziali e conservatrici. Ed essendo le fondazioni gli azionisti di riferimento delle banche italiane – con il potere che ne deriva – il dato non è affatto secondario.

Le fondazioni bancarie, però, presentano anche qualche vantaggio. Ad esempio debbono spendere i propri utili con criteri di promozione sociale perché prive di scopo di lucro. Invece che al profitto debbono guardare alla difesa della cultura e del patrimonio artistico, alla ricerca, all’ambiente, all’assistenza sociale, all’educazione, alla sanità pubblica, al volontariato e alla beneficenza.

Tuttavia questo potere positivo può talvolta risultare un po’ troppo opaco. Infatti le fondazioni fanno le proprie scelte senza dover rendere conto a nessuno, senza alcun controllo popolare. Questo genera inevitabili malumori e riporta alla contraddizione tra chi può solo dire e chi può anche fare.

Si potrebbe superare il problema “democratizzando” le fondazioni? Forse i cittadini dovrebbero avere più voce in questi centri di potere. Dovrebbero poter controllare il merito delle erogazioni. Una maggiore trasparenza nelle scelte, ridurrebbe al minimo il rischio di possibili clientele e miserabili favori.

In questo periodo si fa un gran parlare della partecipazione popolare ai Consigli comunali. Data l’influenza che hanno sulla vita delle città, sarà il caso di estendere il metodo agli organi dirigenti delle fondazioni? Magari le loro riunioni si potrebbero aprire al pubblico o trasmettere in rete.

Non sarebbe un bene se il popolo potesse controllare e decidere come investire certe risorse? Dopotutto hanno origine dal risparmio e dal denaro delle comunità locali. Dunque perché non gestirli secondo una più ampia ottica del “bene comune”?

Saremo i soliti pedanti scocciatori, ma forse, se la comunità locali potessero avere una voce prevalente nei vertici delle fondazioni bancarie, si potrebbe pure risparmiare qualche imbarazzo all’Assessore di turno!