La crisi? È della città!

Assistiamo, apparentemente privi degli strumenti per ovviarvi, al declino della nostra città in maniera direttamente proporzionale al venir meno della sua capacità di garantire forme adeguate di cittadinanza.

Siamo costretti “dai tempi che corrono” in un tunnel involutivo che partorisce città senza abitanti, ovvero senza cittadini. Non-città in cui si dissolvono “forme” urbane e sociali, in cui scompare il cittadino, insieme a lui la politica e insieme a loro la democrazia. Ci siamo trasformati in meri soggetti di consumo e abbiamo preteso che la città divenisse una delle tante (neppure la più importante) “macchina per il consumo”. Una marmellata in cui gli unici grumi sono le cittadelle per gli acquisti. Non-luoghi che spesso assumono l’aspetto fantasmatico e un po’ triste di città fittizie.

L’attivazione delle energie sociali resta in questo contesto storico fondamentale, determinante, ma solo a condizione che la partecipazione non si riduca a semplice strumento per la costruzione del consenso o per il decentramento istituzionale. Piuttosto è necessario che divenga in concreto espressione dell’azione di trasformazione che viene dalle pratiche sociali, cui si dà struttura, visibilità, efficacia, potere.

Nel mondo dell’ultima, recente globalizzazione, la questione della democrazia è un punto critico quasi disperato. È vero che esiste in molti cittadini una sensibilità acuta ed una pronta capacità di mobilitazione e ciò comunque è un bene, ma questi cittadini “avvertiti”, si misurano con i problemi sempre e comunque in quanto questioni personali. Soprattutto essi spesso si percepiscono e si rappresentano come “utenti”. Rivendicano cioè non tanto potere e responsabilità, ma soprattutto servizi e rispetto delle regole. La loro voce parla solo per loro, per il qui, per ciò che è loro diritto avere. Raramente per uno spazio più ampio del nostro spazio, per conquistare nuovi diritti. Raramente parla per tutti, mentre solo un progetto per tutti può rappresentare un reale e credibile strumento di organizzazione politica.

È soprattutto vero che quelli che non hanno voce non trovano nessuno che vuole dargliela (al massimo – e non è poco – si offre loro pietà e compassione). Nasce anche così la “periferia centrale”, la periferia nel centro storico, la periferia della cultura cittadina e del nostro intelletto, in cui il progressivo degrado del patrimonio abitativo, della piazza, dello spazio e del tempo del confronto, della memoria collettiva, si accompagnano inevitabilmente alla perdita di funzioni, ricchezza e diversità sociale.

Forse siamo vicini al punto in cui sarà possibile ripensare alla politica per la città a partire da altri addensamenti, quelli delle “comunità” che in qualche interstizio si sono collocate. Ricostruiscono pratiche di solidarietà, inventano occasionali momenti di coesione sociale, percorrono astutamente le strade inventando luoghi pubblici. Ma sono comunità ancora troppo isolate, senza progetto, senza relazioni, senza potere. A volte senza cultura.

In sostanza non è mutata la necessità di governare i processi, di utilizzare un piano, di definire vincoli e norme, ma è mutata l’idea che ciò possa avvenire per volontà demiurgica dell’interesse e del potere privato e privatistico. La città è possibile solo in una dimensione interamente pubblica, e come tale deve essere pensata, programmata, progettata, regolata, “mantenuta”. Non più solo uno spazio ben attrezzato a parcheggio o per lo scambio di merci e servizi, ma luogo di relazioni, di discussioni, di trame, di seduzioni, di intrattenimento.