Riflessioni

La Chiesa nel cuore, il cuore nella Chiesa

Don Lorenzo Blasetti parte da un bilancio personale per proporre una chiave di lettura del momento attuale, condizionato dalla pandemia

Siamo ancora nel pieno di un evento, la pandemia, che sta sconvolgendo in maniera forte e preoccupante tutti i nostri schemi esistenziali: sociali, politici, economici, culturali e religiosi. Le domande si rincorrono mettendo in crisi le soluzioni appena intraviste e riproponendo il problema in tutta la sua acutezza e drammaticità. Non mancano come sempre i soliti slogans esorcizzanti: “andrà tutto bene”, “ne usciremo migliori”, “è un’occasione da non perdere”.

Personalmente, in questo contesto, vivo l’anniversario della mia ordinazione presbiterale. Sono ormai quarantasei anni e più che mai oggi sento di dover fare un bilancio nella consapevolezza che l’orizzonte che mi sta davanti sul piano temporale si è ristretto. Dico subito che il bilancio non è confortante. Sul piano personale sono molte le lacune con le quali debbo fare i conti. Ma debbo anche dire che mai è venuta a mancare la fede in Cristo e la passione per la sua Chiesa. Il problema sta proprio in quell’aggettivo possessivo, sua, che ha sempre suscitato in me e oggi più che mai un senso di profondo smarrimento e di sincera amarezza.

Sono “nato prete” in un contesto storico-ecclesiale particolarmente vivace e stimolante: il Concilio Vaticano II con tutto ciò che ne è seguito, anche nella Chiesa italiana, sono stati il nutrimento della mia formazione prima e dopo l’ordinazione. Una formazione che ho sempre coltivato convinto come sono che i preti dovrebbero essere sempre in stato di permanente formazione. I teologi che allora facevano scuola e molti dei vescovi che guidavano la Chiesa italiana erano punti di riferimento particolarmente significativi così come il magistero di un grandissimo papa, poco appariscente ma di altissimo spessore teologico, come Paolo VI. A rileggere i documenti di allora e i piani pastorali che la Chiesa italiana ci propose a partire dal rinnovamento della catechesi e dei progetti pastorali centrati sulla evangelizzazione non posso non avvertire una sensazione di profondo sconforto. La storia della Chiesa, credo, è la storia di appuntamenti mancati. Abbiamo mancato l’appuntamento con le questioni rilevanti che avremmo dovuto affrontare con coraggio, così come ci sollecitava a fare il concilio Vaticano II e poi la riflessione teologico-pastorale della maggior parte delle Chiese, compresa quella italiana. Abbiamo mancato l’appuntamento con la Parola, con la Liturgia, con la promozione umana. Abbiamo fatto orecchi da mercanti quando lo Spirito si è fatto largo tra le tante e spesso vane parole pronunciate a destra e a manca nella chiesa e ci ha richiamato a ciò che era realmente necessario. Oggi ci ritroviamo con una chiesa abitata in larga parte da cristiani non evangelizzati, non catechizzati e non eticamente formati alla scuola del Vangelo. Abbiamo ancora una buona percentuale di “sacramentalizzati” ma come non porci la domanda di che cosa significhi distribuire i sacramenti in questo modo se poi i ragazzi che attraversano le nostre parrocchie non solo si allontanano sempre di più dalla chiesa ma sono anch’essi vittime e protagonisti della cronaca nera che li riguarda e che ormai ogni giorno ci viene raccontata dai giornali? Questa pandemia sta facendo emergere ancora di più come durante questi anni abbiamo continuato a scommettere sulla convenzione piuttosto che sulla convinzione, sulla religiosità popolare piuttosto che sulla fede, sul moralismo legalistico piuttosto che sulla morale del cuore e della scelta adulta, convinta e responsabile di Cristo e del suo vangelo.

Cosa fare? “Non si tratta, allora, di inventare un «nuovo programma». Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (NMI, n.29): sono parole di Giovanni Paolo II, un papa ammirato ed esaltato (?) dentro e fuori la chiesa, che dopo l’anno santo del 2000, invitava a “ripatire da Cristo”.

La chiesa deve tornare ad essere e a fare la chiesa attingendo alla sorgente della fede che dà senso alla sua missione. È il forte messaggio che papa Francesco ci sta proponendo in tutti i modi. “La Chiesa “in uscita”, ci ricorda il papa, è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano” (EG, 23). Il problema e l’impegno stanno proprio in quello che il papa dice perché, è evidente, che prima di essere “in uscita” bisogna essere in grado di farlo. Bisogna essere “Chiesa”, altrimenti non si diventa missionari, ma vagabondi e la missione diventa una controtestimonianza. Per questo, oggi più che mai, abbiamo bisogno di una Chiesa “mater et magistra”. Se una scuola, in crisi, pensasse di risolvere i suoi problemi proponendo iniziative di ogni genere ma dimenticasse che lo scopo per cui è nata è quello di formare culturalmente chi la frequenta verrebbe meno alla sua identità e alla sua funzione. La Chiesa è una “scuola di vita”: l’educatore è Lui, Cristo; il manuale è “il vangelo”; lo scopo: uomini e donne “nuovi”, capaci di “missionarietà”. Lo sforzo da fare è chiaro: formare cristiani adulti e convinti in grado di essere nel mondo senza essere del mondo. Dobbiamo cercare in tutti i modi di non incorrere in quello che denuncia il libro dell’Apocalisse dove leggiamo: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!  Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca (Ap 3,15s.)

A distanza di 46 anni dalla mia ordinazione presbiterale, confesso che ho cercato con tutte le mie forze senza riuscirci come avrei voluto di non essere tiepido. Ma non posso non constatare che la Chiesa dei miei primi anni sacerdotali mi aiutava molto di più a non esserlo anche perché ho cercato sempre di attingere stimoli teologici e pastorali dentro (?) e fuori dalla mia Chiesa locale.  E non posso non chiedere a tutti coloro con i quali condivido quotidianamente il cammino della fede di domandarsi se abbiamo fatto e stiamo facendo tutto quello che dobbiamo per non meritare il rimprovero dell’Apocalisse. Una domanda o, se volete, una provocazione che nasce dal cuore con la speranza che, finalmente, la nostra Chiesa risponda alle attese dello Spirito in maniera coraggiosa senza perdersi in sterili discussioni. La strada da percorrere, tutti insieme con decisione e coraggio, è fare spazio alla Parola viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio senza dimenticare che essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12).