Giornata mondiale del Malato

La Chiesa italiana ai «curanti»: grati per ciò che siete, speriamo con voi

La 30esima Giornata mondiale del Malato, l'11 febbraio, è l'occasione che l'Ufficio Cei per la Pastorale della Salute coglie per inviare una Lettera ai Curanti condividendo riconoscenza e inquietudini

È anzitutto un gesto di profonda riconoscenza e di intenso apprezzamento la «Lettera ai Curanti» che la Cei diffonde alla vigilia della 30esima Giornata mondiale del Malato dell’11 febbraio, a firma dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute diretto da don Massimo Angelelli (QUI IL TESTO INTEGRALE).

Attraversati due anni di pandemia avendo davanti agli occhi l’«abnegazione» con cui si sono spesi «fino all’estremo» delle loro forze, ora la Chiesa italiana sente di dover esprimere «gratitudine» insieme a «rispetto» e «stima» a «medici, infermieri e professionisti sanitari», oltre ai «medici di medicina generale e ai pediatri, agli operatori dell’assistenza domiciliare, ai farmacisti», ai dirigenti sanitari ma anche ai «cappellani» e agli «assistenti spirituali». Il ringraziamento – «fatto di preghiera e di attenzione nei confronti vostri, dei vostri affetti e delle vostre famiglie, e di chi è affidato alle vostre cure» – si estende anche «ai Curanti della porta accanto che in tante case dei sofferenti svolgono concretamente un compito di cura», quali «nascosti e silenziosi portatori di bene».

 

 

La lettera esprime anche una serie di «preoccupazioni», emerse nell’ascolto delle professioni di cura: tra le altre, la «riduzione dell’umanesimo in medicina», che ha «comportato la quasi scomparsa della carità medica»; l’emersione della «nuova categoria» degli «irraggiunti», cioè «coloro che, pur avendone diritto, non riescono o non vengono messi in condizione di accedere al Servizio sanitario nazionale»; un certo «senso di solitudine e di abbandono che umilia sia la dimensione umana che quella professionale»; il «crescente peso delle procedure burocratiche»; un lavoro che «talvolta vi vorrebbe regolati da impietose leggi del mero commercio».

 

 

Tutte inquietudini compensate da una «speranza», che nel «vostro lavoro» è «speranza nell’uomo, speranza in Dio». La Cei registra, tra le «legittime attese», il «miglioramento delle condizioni globali in cui svolgere il proprio ruolo professionale», auspicando tra l’altro «una seria riflessione» per «il ripensamento della programmazione del numero di coloro che possono accedere ai percorsi formativi accademici», perché «il Paese ha bisogno di più professionisti della salute che vedano riconosciuto il loro ruolo e siano messi nelle condizioni di operare al meglio, per garantire una stabile sostenibilità del sistema universalistico di cura».

 

 

Sempre più attuale, poi, l’importanza della «sfera spirituale» coinvolta dalla condizione di malattia: «Nei corridoi degli ospedali come nel domicilio del malato – scrive l’Ufficio per la Pastorale della Salute – la presenza testimoniante dei cappellani e degli assistenti spirituali assicura il necessario completamento della presa in carico di tutti i bisogni della persona sofferente, comprendendo la dimensione spirituale».

 

È dunque «speranza» la parola che la Chiesa italiana si sente di condividere oggi con tutti i «Curanti», sentendosi «fratelli tutti, perché figli di un unico Dio»: «La speranza cambia lo sguardo: non si vede più la frammentazione della persona del paziente, talvolta ridotto a codice sanitario, non si vede più soltanto la patologia o l’organo malato». Un nuovo sguardo fa «accogliere la persona come una totalità unificata»: così che oggi «quando si incontrano due persone, il curante e il curato, nasce la vera presa in carico».

da avvenire.it