Italia

La bomba alla stazione di Bologna, i depistaggi e i veleni

Libero Mancuso: ci fu subito un’offensiva contro la giustizia, con attacchi personali da massoni all’interno delle istituzioni. Coinvolti anche magistrati

Quarant’anni dopo, con diversi processi celebrati e numerose condanne in atto, la vicenda della strage di Bologna non è ancora chiusa. La recente nuova inchiesta della procura generale di Bologna ha infatti rivelato che mandanti e organizzatori della strage e dei successivi depistaggi furono quattro massoni, tutti defunti: Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani, l’alto dirigente del Viminale Federico Umberto D’Amato e il giornalista ed ex senatore Msi Mario Tedeschi.
In particolare il gran maestro della P2 pagò 5 milioni di dollari, presi da conti svizzeri derivanti anche dal crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, per finanziare il gruppo esecutore dei terroristi di estrema destra Nar: Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, tutti già condannati (i primi tre in via definitiva e l’ultimo in primo grado), cui si aggiungerebbe ora il nuovo indagato Paolo Bellini, ex di Avanguardia Nazionale.Si completa così ulteriormente il quadro delle responsabilità intorno alla bomba che sabato 2 agosto 1980, alle 10.25 precise, esplose nella sala d’aspetto di seconda classe distruggendo l’ala sinistra della stazione di Bologna e colpendo pure il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea fermo sul primo binario; 85 furono i morti (tra cui una bambina di appena tre anni) e oltre 200 i feriti: la strage più efferata d’Italia.

Questa mattina il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sarà a Bologna per commemorare le vittime. Alle 11 è prevista la messa celebrata dall’arcivescovo Matteo Zuppi, quindi il capo dello Stato incontrerà i familiari delle vittime. Il 2 agosto invece a rappresentare le istituzioni sarà – con il sindaco Virginio Merola – la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Dobbiamo ricordare. La vicenda della bomba alla stazione di Bologna è stata la copertura degli autori della più grave, sanguinosa strage nel nostro Paese. Che porta impressa nella propria carne un’offensiva durata decenni che ha insidiato la qualità degli equilibri democratici e ha bloccato l’affermarsi dei valori enunciati nella Costituzione repubblicana, avversata da agguerrite espressioni reazionarie sopravvissute al fascismo».

A parlare è Libero Mancuso, pm della prima inchiesta che portò alla condanna di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, e anche di Licio Gelli e di alcuni uomini dei servizi segreti per depistaggio. Magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo e all’eversione, si è occupato dell’attentato all’Italicus, della P2, della “Uno bianca”, dell’omicidio di Marco Biagi. Ora come avvocato segue il processo Aemilia sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna.

Trovaste subito ostacoli e depistaggi. Chi e perché voleva bloccare o deviare l’inchiesta?
La vicenda del depistaggio per cui vennero condannati Licio Gelli e i vertici del Sismi, tutti iscritti alla P2, fu solo uno, anche se il più eclatante, dei numerosi avvelenamenti delle indagini che hanno accompagnato l’intero percorso processuale, portati a segno con la predisposizione di documenti e testimoni falsi, l’uso smodato di offensive giornalistiche contro chi indagava i reali autori della strage. Un’offensiva contro la verità e i giudici di inusitata potenza. Si voleva impedire a ogni costo che si pervenisse all’individuazione degli autori della strage. Occorreva salvare gli esecutori materiali, anche perché non si individuassero i mandanti, i soli in grado di scatenare, dalle sedi occulte del loro straordinario potere e servendosi di numerosi organi di stampa più o meno asserviti e di tutti i vertici di Polizia, nessuno escluso, un’offensiva contro la verità con una forza intossicante mai prima conosciuta.

I Nar hanno sempre negato la propria responsabilità. Ammettono tanti omicidi ma non l’attentato. Perché?
È sufficiente leggere la requisitoria del pm o la sentenza di condanna di primo grado, o quella della Cassazione, per smentire nel modo più netto e risoluto tale affermazione, fatta circolare ad arte a difesa degli imputati ma sonoramente smentita da quanto accertato in atti. Altro che sprovveduti “ragazzini”, “spontaneisti”, come sostenuto anche da magistrati affermati, che non esitavano a entrare in polemica con la procura su un punto tanto delicato. Aprendo in tal modo un altro fronte, particolarmente insidioso e doloroso allo stesso tempo, dell’offensiva contro verità e giustizia».

Ora si torna a parlare del ruolo di Licio Gelli.
A carico di Gelli è stato di recente acquisito agli atti il documento “Bologna”, dove figurano trasferimenti di ingenti somme di danaro a personaggi istituzionali iscritti alla loggia P2. Versamenti tutti avvenuti a cavallo del 2 agosto 1980. Ma a carico di Gelli, non si dimentichi, figurano il suo dominio sui servizi segreti risalenti al Sifar, la collocazione al vertice di una potente loggia dotata di un potere ricattatorio smisurato in grado di condizionare le decisioni dei vertici politici, la sua vocazione golpista e stragista.

Cosa manca ancora per avere la verità completa?
Ritengo che la frenetica campagna denigratoria condotta nei miei confronti, quale rappresentante della pubblica accusa e delle indagini che avevano smascherato collusioni e responsabilità dirette nella strage del 2 agosto, confermi ulteriormente la convinzione che si trattò di una condanna giusta. Gli attuali contributi convergono pienamente nell’affermare la fondatezza di quelle conclusioni accusatorie, che tra infinite difficoltà divennero condanna definitiva.

Un’ultima domanda personale. Quell’inchiesta cosa ha voluto dire per la sua vita?
Conobbi il dolore di Torquato Secci e di sua moglie per la perdita del figlio, studente universitario a Bologna. Un dolore che ho condiviso e che ancora oggi, scomparsi quei genitori, porto dentro di me. Ho fatto a meno di riconoscimenti, mai cercati e mai ricevuti. Ricordo solo gli innumerevoli procedimenti disciplinari che il ministro della Giustizia proponeva contro di me e dai quali sono stato sempre assolto. Ma tuttora non riesco ad accettare quanto mi capitò in occasione della più velenosa delle offensive portate al processo nel tentativo di inquinarlo, nel corso del dibattimento di secondo grado concluso con alleggerimento di pene e assoluzione degli esecutori della strage. In quella fase processuale i difensori degli imputati consegnarono a ciascun giurato popolare un dossier di accuse nei miei confronti: sarei stato indotto a sostenere l’accusa di innocenti a causa della mia supposta militanza, inesistente, nel Partito comunista. I giornali inondarono per giorni le loro pagine di quelle accuse. Il procuratore della Repubblica pensò bene di affidare le indagini contro di me a un collega che aveva la sua stanza accanto alla mia e che arrivò a raccogliere le accuse nei miei confronti in più verbali che divenivano, già il giorno successivo, di comune dominio. Il nome di quel collega era nella medesima lista di massoni coperti in cui figuravano anche i nominativi degli imputati Musumeci, Belmonte e Pazienza, gestiti direttamente da Licio Gelli. L’inchiesta finì nel nulla ma quel dossier, consegnato a ciascuno dei giurati popolari del primo processo di appello, ne condizionò l’esito. Chi lo redasse in puro spirito intossicante fu il mensile neofascista “Il Borghese”, diretto da Mario Tedeschi, iscritto alla P2 e oggi, da morto, indicato dalla procura generale di Bologna quale uno dei mandanti del delitto di strage, affidata per l’esecuzione ai “ragazzini” dei Nar.

da avvenire.it