33. La “Centesimus annus”: l’intuizione di Leone XIII nel pensiero di Giovanni Paolo II

«Leone XIII, sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano».

Il testo si apre con parole di gratitudine e apprezzamento di papa Giovanni Paolo II indirizzate al suo predecessore, papa Leone XIII, per aver aperto una strada importante nella storia dell’umanità e della Chiesa con la pubblicazione della “Rerum Novarum” (15 maggio del 1891). Il citato documento, con il quale abbiamo aperto questa rubrica, è indicato dal papa come la radice dalla quale sale la ricca linfa che “non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda”. Questa gratitudine è inoltre estesa a tutti i pontefici che hanno continuato il solco aperto da Leone XIII fino ad arrivare a ben 100 anni dopo la pubblicazione della prima Enciclica sociale, un anniversario commemorato proprio con la pubblicazione della “Centesimus Annus” (1 maggio 1991). Altre due importanti Encicliche in linea con il pensiero di Leone XIII nonché con quello di Paolo VI, erano state già proclamate da Giovanni Paolo II, la “Laborem exercens” (1981), sul lavoro umano, e la “Sollicitudo rei socialis” (1987) sullo sviluppo degli uomini e dei popoli. La chiave di lettura del documento che stiamo iniziando a conoscere è fornita dallo stesso pontefice quando invita ad una rilettura dell’Enciclica leoniana da tre punti di vista: guardare indietro, guardare intorno, guardare al futuro. Se da una parte si tratta di “scoprire nuovamente la ricchezza dei principi fondamentali” della Rerum Novarum, dall’altra si vuole porre attenzione alle «cose nuove», che ci circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle «cose nuove» che contraddistinsero l’ultimo decennio del secolo passato. Provocatorio è invece l’invito a «guardare al futuro», un orizzonte carico di incognite, ma anche di promesse. Ricordiamo che siamo nell’ultimo decennio del XX secolo e per futuro s’intende l’inizio del terzo millennio. Sembra essere una sorta di bilancio consuntivo da redigere in merito alla questione operaia e riferito al XX secolo, e contemporaneamente un “manifesto” da tenere bene in mente in vista delle sfide future, delle problematiche ancora aperte e altre ancora a cui andare incontro riferite al lavoro umano e in senso più ampio allo sviluppo economico del mondo. La prima attenzione, il guardare indietro, viene subito sviluppata nel capitolo iniziale. In esso si richiama il mosaico storico – culturale che caratterizzò la fine dell’800 e nel quale la Chiesa si trovò a navigare. Tante le tessere del mosaico: i mutamenti politici e economici, quelli tecnici e scientifici, il “multiforme influsso delle ideologie dominanti”. Il modello di società che stava emergendo, nonché la concezione dello Stato, differivano dal passato e accanto a speranze e possibilità nuove si affacciavano anche “nuove forme di ingiustizia e servitù”. La società tradizionale stava tramontando e “cominciava a formarsene un’altra”, arrivando “progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l’età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall’efficienza in vista dell’incremento del profitto. Il lavoro diventava così una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia”. La società nuova, per quanto offrisse libertà svincolate dal modello economico fondato sulla famiglia patriarcale, comportava un prezzo da pagare, la “divisione della società in due classi, separate da un abisso profondo”. La contrapposizione era fonte di gravose preoccupazioni per uno scontro sociale nel quale l’uomo si sarebbe scagliato contro l’altro uomo, senza riserve, senza rispetto. Ecco quindi l’opera del pastore, il Vicario di Cristo in terra capace di operare per la Pace e la condivisione, “Sua intenzione era certamente quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini. Ma era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: contenuto essenziale dell’Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora. In questo modo Leone XIII, sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano” (4).