Convegni

“Insieme per costruire Ponti”, in sala consiliare si discute sulle identità di genere

Si è parlato di gender, nel convegno svolto venerdì nell’aula consiliare del municipio nell’ambito del progetto “Insieme per costruire Ponti” promosso dal Comune capoluogo e coordinato dal consigliere delegato alle politiche scolastiche, Letizia Rosati, e dall’assessore ai servizi sociali, Giovanna Palomba.

Si è parlato di gender, nel convegno svolto venerdì nell’aula consiliare del municipio nell’ambito del progetto “Insieme per costruire Ponti” promosso dal Comune capoluogo e coordinato dal consigliere delegato alle politiche scolastiche, Letizia Rosati, e dall’assessore ai servizi sociali, Giovanna Palomba. Un interessante pomeriggio sul tema “Il Gender: dalla teoria all’ideologia. Un approccio multidisciplinare” organizzato in collaborazione con l’associazione “Articolo 26 per la Libertà educativa” di Roma, per chiarirsi le idee su questo “pensiero” non codificato da nessuna parte eppure in qualche modo presente, spesso in modo sottile e inconsapevole, nella realtà sociale con risvolti educativi quanto meno problematici.

Lo si è voluto affrontare, ha precisato nell’introduzione la Rosati, con «un approccio multidisciplinare che vuol essere assolutamente scientifico e non ideologico» invitando insegnanti, genitori e cittadini a riflettere nella consapevolezza che «i nostri ragazzi vivono in una società liquida e complessa». Lo sfondo di riferimento, pur in un’ottica laica, è quella della Laudato si’ oggi letta da tutti, eppure, ha detto la consigliera, «spesso chi difende tanto la natura però per l’uomo propone le ideologie che ci allontanano di più dalla verità biologica, e questo il Papa lo ricorda più volte parlando di ecologia integrale», per cui rispetto della natura vuol dire anche «rispetto della sessualità, della differenza sessuale da non cancellare».

Ha portato il saluto anche il garante cittadino per l’infanzia, Luigi Conti, rivolgendo il benvenuto alla relatrice invitata: la professoressa Assuntina Morresi, docente all’Università di Perugia e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, con la quale Conti condivide l’essere presidente (lui qui a Rieti, lei nel capoluogo umbro) dell’associazione Scienza & vita, ma soprattutto, ha chiosato, quella «passione per l’uomo che spinge a: vedere che esiste una verità dell’uomo, un nocciolo duro della natura umana che il mondo non sa spiegare».

La sfida di tutto il discorso, infatti, è il dato antropologico. E vi ha fatto ampiamente riferimento la relatrice ma anche il vescovo, invitato a parlare prima di lei. Monsignor Pompili si è detto «persuaso che quello di oggi può essere un momento utile per sollevare qualche domanda rispetto a talune certezze che sembrano essere vincenti». In nome di quella ecologia integrale che ci spinge a considerare contraddittorio l’attenzione al pianeta senza l’attenzione all’umano, ha detto citando il saggio L’uomo di sabbia della psichiatra Catherine Ternynck: “Da ogni parte ci esortavano a salvare il pianeta. Non si doveva, con la stessa urgenza, venire in soccorso all’umano? Se l’aria doveva restare pura, se l’erba doveva restare verde, non bisognava anche che il mondo degli umani restasse abitabile? Che cosa si faceva della terra degli uomini?”. Il problema, ha spiegato don Domenico, è «che il suolo umano – la terra che ci fa suoi abitanti – si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità e così è divenuto friabile ed inconsistente. Al punto che l’uomo stesso su questo terreno incerto finisce per diventare ‘di sabbia’. Una figura fluida, di più ancora, inafferrabile ed impastata di contraddizioni, ma con una caratteristica evidente: la sensazione di una stanchezza. È un uomo ‘dalla testa pesante’ che fatica a portare avanti la sua vita, dubita in continuazione del tragitto e del senso, chiedendo al contempo riconoscimento e rassicurazione. È schiacciato dall’urgenza di farsi da sé in una competizione mozzafiato e nello stesso tempo scopre che gli manca la terra sotto i piedi». E così «il grande sogno dell’individualismo che ha segnato di sé l’uomo moderno lo ha condotto nella post-modernità ad una imbarazzante scoperta: il grande sogno non ha retto!».

Ecco, allora, cogliere la possibilità «di sollevare qualche dubbio, provando ad ascoltare l’uomo e la donna di oggi, senza pregiudizi o filtri ideologici, ma assecondando la vocazione della Chiesa che ha come suo primo compito quello di ascoltare Dio e inseparabilmente il mondo, soprattutto le sue sofferenze, i suoi disagi, le sue fatiche, le sue paure. L’obiettivo non è di difendere una posizione, di ribadire un’identità, ma di entrare in dialogo, per consentire a credenti e non credenti di cogliere il contributo di umanizzazione che la luce della fede suscita innanzitutto nell’ambito della famiglia, come ci ha ricordato di recente papa Francesco». E «tra i luoghi deteriorati dall’individualismo», ha voluto dire il presule, «la famiglia è quella che è oggi ancor più in difficoltà, ancor prima del sociale e del politico. È diventato perfino uno slogan dire che essa è in crisi e indicatori severi non mancano al riguardo». Al contempo, tuttavia, la famiglia «è pure l’antidoto alla stessa crisi, l’unica alternativa praticabile ad una esasperazione dell’individuo la cui pesantezza è diventata insostenibile, sotto la pressione di un’autonomia rivelatasi ben presto ingenua e cinica allo stesso tempo». Perché essa, ha concluso monsignore, «la famiglia una fabbrica di interessi, di relazione, che riescono però a portare avanti l’avventura umana. Oggi la famiglia è la grande possibilità che ci è data».

Al denso e interessantissimo intervento della professoressa Morresi il compito di illustrare questa che viene chiamata “teoria del gender” ma che, ha precisato subito la relatrice, non è da intendersi come «una teoria precisa con un padre che l’abbia definita, come fosse per esempio la teoria della relatività di Einstein, ma un insieme di orientamenti, una corrente di pensiero che nei decenni si è andata affermando». Una tendenza culturale che giunge ad affermare che «alla fine il corpo sessuato non è una caratteristica fondamentale dell’identità umana». Fermo restando che gli esseri umani biologicamente parlando sono maschi o femmine, e questo nessuno lo può cambiare, secondo tale “teoria” però «essere maschio o femmina non è una caratteristica essenziale, ma che si può cambiare, è un qualcosa di accessorio che ha lo stesso peso del colore dei capelli, della forma del naso, non è caratteristica fondante la nostra identità: punto di arrivo è che la differenza fondamentale non è essenziale per il nostro vivere». Dunque, «quel che è essenziale per definirci non è la differenza genetica, ma come ci presentiamo, come percepiamo noi stessi», insomma quella che viene detta “identità di genere”.

Ma tutto ciò, ha spiegato la Morresi, «sarebbe rimasto una teoria più o meno affascinante se a un certo punto della storia non si fosse verificato un evento che l’ha resa praticabile: l’inizio della fecondazione assistita», con tutti gli scenari che nel tempo si sono moltiplicati e gli interrogativi, etici, giuridici, medici, sociali che queste tecniche via via pongono: più mamme, con difficoltà nel definire chi sia quella vera.

La professoressa ha citato esempi di dilemmi da lei ben studiati come consulente dei ministri della Sanità nei precedenti governi, come il famoso scambio di embrioni all’ospedale Pertini di Roma. Situazioni che ci pongono davanti un dato di fatto: a chi appartengano davvero embrioni e figli, in queste tecniche, «non esiste un criterio oggettivo per stabilirlo. Chi stabilisce la genitorialità legale è un contratto. Significa che sono genitori non coloro che generano, ma coloro che manifestano l’intenzione di averlo, e per questo stipulano un contratto. Non è il generare che rende genitori, ma l’intenzione, espressa in un contratto».

E tutto ciò che c’entra con il gender? È presto detto, ha spiegato la relatrice: «Se il contributo maschile si riduce a una fiala che nemmeno vedi, è più facile rendere la genitorialità intenzionale se manca il rapporto fisico. Ma che cos’è la fertilità e la procreazione se non il massimo della differenza sessuale? Prima che arrivasse la fecondazione assistita, del resto, nessuno pensava alla famiglia omosessuale, anzi i movimenti di liberazione omosessuale affermavano la liberazione dalla famiglia, vista come un’istituzione arretrata: chiedevano semplicemente di vivere la loro sessualità senza andare in galera, nessuno pensava ad avere figli!». Ecco ora, invece, che si rivendica la filiazione per coppie gay. Punto di arrivo di una “ridefinizione” di ciò che è sesso: «Se scindo la sessualità dalla procreazione e trovo quel che voglio in laboratorio, essere maschio e femmina è un puro accidente, non più qualcosa di costitutivo».
Sconvolgendo un principio giuridico di fondo: «Vero che esiste una filiazione non naturale, come l’adozione di chi è orfano o non ha genitori in grado di provvedere a lui, Ma nell’adozione il diritto è del bambino. Invece qui avere un figlio diventa un “diritto” dei genitori», e tutto ciò ormai a prescindere dalla differenza sessuale: la frittata è ormai fatta!

A questo punto ogni limite cade. Intanto, «la questione del perché i genitori debbano essere due. Già adesso in California una legge del 2013 prevede che in certi casi in nome dell’interesse del bambino il giudice possa aggiungere un terzo genitore». E poi un’altra possibile conseguenza, a cui ci stiamo arrivando: «se è un contratto chi lo ha detto che è per sempre? Tutti i contratti si possono rompere. Adesso nessuno di un figlio può dire che non è più suo figlio. Ma se il figlio è l’esito di un contratto, perché non aspettarci questa possibilità?».

Tutto va cambiando: «L’individuo tipico di questo nuovo mondo è il transgender. Non è il transessuale (persona che nata maschio si sente femmina e si corregge, o viceversa), lì il modello è binario, maschio o femmina. Il transgender ha il sesso riconosciuto alla nascita ma espressione, atteggiamento, modo di parlare e di vestire dell’altro sesso», perché ad affermarsi è l’idea che «si può passare dal sentirsi uomo al sentirsi donna e viceversa», fino a casi limite di donne che all’anagrafe sono diventati uomini (perché in alcuni Paesi è già possibile in modo automatico, basta fare domanda) e però hanno partorito diventando madri biologiche..

Niente madre, niente padre… e chi è il figlio? La rivoluzione antropologica pone seri problemi di identità: «Se tolgo le parole padre e madre, io chi sono? Che cosa rimane di me? Non è vero che conta l’amore, altrimenti i figli adottati o affidati non dovrebbero avere problemi, dovrebbero essere i più felici della terra perché voluti. Ma manca il “da dove vengo”!».
E allora, per concludere, si tratta di una sconvolgente, inquietante «rivoluzione antropologica, prima che morale. Il problema è che si stanno modificando le relazioni fondanti della società umana. E inevitabilmente le persone saranno più fragili».