Indiani in corsa per l’Ilva

Interessati al polo di Taranto due colossi dell’acciaio: Jindal e ArcelorMittal

Le poche (e scontate) parole che il Presidente del Consiglio riserva al Sud nei suoi discorsi – intrisi di inattuali e speranzosi annunci che sarà la ripresa dell’intero Paese a colmare il divario abissale di crescita, reddito e lavoro, che separa quel territorio dal Nord – hanno lasciato spazio, in queste settimane, ad un’operazione che, se realizzata, avrà una portata enorme. Si tratta della vendita dello stabilimento Ilva di Taranto (e forse anche di Genova).

In base alle dichiarazioni diffuse dal ministro per lo Sviluppo economico, sarebbero numerose le manifestazioni d’interesse che si sarebbero manifestate da parte di gruppi non italiani, europei ed extra-europei. Fin qui, nulla di scandaloso. L’apertura di numerose inchieste giudiziarie nei confronti della famiglia Riva, proprietaria dell’azienda, il sequestro dei loro beni operato dalla magistratura, le proteste relative alla tutela ambientale, insieme all’incapacità evidente delle amministrazioni locali di concorrere a governare una situazione incandescente, hanno reso impossibile il proseguire nell’assetto attuale. Peraltro, commissariato. Poiché l’Ilva non è un’industria qualsiasi, ma “la” industria italiana, una situazione di questo genere, di fatto, può produrre gli appetiti di tanti gruppi economico-finanziari e imprenditoriali del mondo ormai globalizzato, anche se è nello stesso tempo il segno di quanto sia scarsa la capacità della grande imprenditoria del nostro Paese – abituata solo ad essere sovvenzionata dall’assistenzialismo di Stato – di mettersi in gioco e di formulare un’offerta per l’acquisizione di un’industria che ha fatto la storia della siderurgia italiana.

Probabilmente saranno gli indiani, i nuovi padroni dell’Ilva. Sono due i colossi in campo. Il gruppo Jindal, che ha già visitato, con i suoi tecnici, gli stabilimenti di Genova e di Taranto, visionando la documentazione relativa allo stabilimento e creando tre sottogruppi di lavoro che stanno esaminando rispettivamente la parte Laminazione, la parte Acciaierie e la parte relativa alle aree degli Altiforni. Il secondo gruppo è la ArcelorMittal, leader mondiale nel settore dell’acciaio – anche leader di mercato nella fornitura di acciaio per l’industria automobilistica e per i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi – nato dalla fusione di due tra le più grandi aziende del settore, la Arcelor e la Mittal Steel Company, avvenuta nel 2006. Quest’ultimo gruppo – “accompagnato” dal gruppo Marcegaglia, che proprio nel Sud ha solidi interessi industriali – ha già partecipato al ministero dello Sviluppo economico a riunioni intense e probabilmente produttive di risultati nei prossimi giorni o settimane, dichiarando che “l’incontro è avvenuto in seguito all’invito rivolto dal Governo italiano tempo fa di esaminare le attività di Ilva”. Questo è il punto. Nessuno, tanto meno i sindacati – preoccupati solo per l’occupazione – si è posto un piccolo problema. Di altri tempi. Etico. Può l’Italia chiedere che un’industria di proprietà, asset e management indiana – anche se con compartecipazione francofona – rilevi l’Ilva e ne risolva il caso? Può l’Italia – garantendosi che nell’operazione entri un gruppo italiano, quasi per “salvare la faccia” – intrattenere rapporti economici e chiedere l’intervento di un Paese che ha sequestrato due suoi militari da 27 mesi, per fatti che non hanno commesso, uno dei quali temporaneamente rilasciato per gravi motivi di salute e ancora in attesa di processo? Sì, l’Italia può. Dal “cappello” di Matteo Renzi – a detta proprio degli indiani – è uscita questa proposta e si profila come quella giusta. Ecco, perché del Sud si può anche parlare poco o non parlare. Meglio fare i fatti.