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In pensione, in missione!

Dopo aver trascorso una vita tra i poveri del Madagascar, superata la soglia degli 80 anni, Elisabeth ed Enzo hanno iniziato una nuova missione

“Di fronte a così tante necessità si può anche rimanere spaesati. Ma noi siamo sempre stati convinti che in ogni persona malata incontravamo il Signore”.

“Volevo che la mia vita avesse un senso. Se c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto, perché non aiutarlo?”.

A parlare sono Elisabeth ed Enzo Caruso, che nei giorni scorsi Missio Österreich ha premiato con l’Austria.On.Mission.Award. In un video, pubblicato sulla pagina Fb dell’arcidiocesi di Vienna, raccontano come è nata la loro vocazione missionaria al fianco dei malati.

“Abbiamo sempre desiderato aiutare i poveri, soprattutto i malati di lebbra – ricorda Elisabeth, infermiera professionista, così come suo marito Enzo –. Quando, nel 1990, è arrivato il momento di andare in pensione, ci siamo chiesti: come possiamo concretizzare questo nostro desiderio?”.

“Avevamo una casa col giardino – racconta Enzo – era bella, un vero sogno. Ma poi abbiamo pensato: un paio di anni ed è tutto finito. Dov’è il senso della vita? Per noi è stato da subito tutto molto chiaro: dovevamo prendere una decisione”. “Abbiamo regalato la nostra casa ai padri camilliani”, aggiunge Elisabeth. “Ci siamo sentiti liberi – prosegue Enzo –, ma quella firma è stata difficile. Mi è costata parecchio, ma l’ho fatta volentieri. Ci siamo quindi messi a pensare cosa avremmo fatto. E alla fine è andato tutto bene”.

È il 6 gennaio 1991. Nella loro parrocchia di Altmannsdorf a Vienna-Meidling, Elisabeth ed Enzo ricevono la benedizione e il mandato missionario. Mettono le loro cose in un paio di valigie e partono. Destinazione Benin. Lì avrebbero continuato a svolgere la loro professione di infermieri. Questa volta, però, al fianco dei più poveri. Per due anni operano nel dispensario di Davougon, che si trova a 10 chilometri da Abomey, capoluogo del dipartimento di Zou, nella parte meridionale del Paese. Dai Medici senza frontiere apprendono tutto il necessario che serve per poter operare in autonomia, anche in assenza di un medico: dall’assistenza alle partorienti al trattamento di diversi traumi e all’assistenza ai malati di tifo e tubercolosi. Enzo si specializza, inoltre, nella cura dei malati di lebbra. “Siamo stati tre anni in Benin – ricorda Elisabeth – Enzo si è occupato soprattutto dei lebbrosi. Poi, con due giovani del posto, andava ogni settimana nel carcere di Abomey, per curare i detenuti malati. È stata un’esperienza molto dura, perché quel carcere era un vero inferno”.

Quando, nel dicembre 1993, tornano a Vienna, Elisabeth ed Enzo sanno che non sarà per sempre. Nei primi mesi del 1994 partono alla volta del Madagascar, dove rimarranno per 12 anni.

“Animali esotici, un paesaggio affascinante e avventure garantite”. Questo è quello che propone una brochure che pubblicizza i viaggi sull’isola al largo della costa dell’Africa orientale, che alcuni chiamano l’ottavo continente. Ma quella che viene reclamizzata come una destinazione turistica da sogno è uno dei Paesi più poveri del mondo. “In Madagascar il vescovo ci ha chiesto di prenderci cura delle popolazioni che vivono nell’entroterra – racconta Elisabeth – in situazioni di povertà estrema, dove non esiste assistenza sanitaria e dove anche la scuola statale è praticamente assente”. “Abbiamo imparato la loro lingua e la loro cultura. Abbiamo vissuto con loro”, aggiunge Enzo.

I coniugi Caruso imparano a conoscere piccoli villaggi di capanne di fango con il tetto di paglia, che sono sconosciuti ai turisti che frequentano i resort lungo la costa. In un villaggio un po’ più grande, con circa 600 abitanti, viene data loro una capanna di fango dove vivere e una seconda viene messa a loro disposizione come “ambulatorio”. Nella zona non c’era nessun ufficio postale, nessun negozio, né elettricità, né acqua potabile. Ma lì incontrano la gratitudine delle persone, che avrebbero accettato anche diversi giorni di cammino attraverso le montagne, solo per ringraziarli dell’aiuto ricevuto. “Quando si sperimenta una cosa del genere, ci si innamora di questo popolo”, sottolinea Enzo.

Una pila di fotografie documenta le varie tappe di questa loro esperienza in Madagascar. Le foto ricordano gli anni nella capanna di fango: la brutta e fangosa strada sterrata, con solchi profondi quanto un pneumatico di camion, che era il loro unico collegamento con la città, per raggiungere la quale era necessario fare 80 chilometri. E poi i malati che vengono portati all’ambulatorio con mezzi di fortuna e i bambini, emaciati per la diarrea. Accanto a queste, però, c’è anche la foto della nuova infermeria, in mattoni, con diverse sale di trattamento e un una stanza per le donne partorienti. C’è quella del nuovo villaggio per lebbrosi, dove trovano accoglienza i malati durante i mesi di trattamento, e quella che racconta della costruzione del pozzo, che fornisce ora acqua potabile agli abitanti del villaggio. C’è la foto della nuova chiesa e quella dei bambini che imparano a leggere e scrivere in aule vere, fatte di mattoni. “Grazie a Dio e grazie alla generosità di tante persone che hanno sostenuto economicamente la nostra missione – racconta Elisabeth – abbiamo potuto fare molto”. “L’aver potuto vivere con loro e l’aver condiviso quotidianamente la loro realtà e le loro difficoltà – aggiunge – ci ha permesso di apprezzarne il loro valore come persone. Prima di avviare qualsiasi progetto abbiamo sempre parlato con i più anziani del villaggio. Non abbiamo mai fatto nulla, senza la lor approvazione e il loro coinvolgimento. Questo è stato importante per noi, ma anche per loro”.

“Tanti ci chiedevano perché facevamo tutto questo per loro – prosegue Elisabeth – perché ci prendevamo cura di loro, pur sapendo che non erano in grado di pagare”. A queste domande, con molta semplicità, Elisabeth ed Enzo raccontavano il significato della croce in legno che portavano al collo. “Quando siamo arrivati nel villaggio c’erano solo 5 persone battezzate – sottolinea Elisabeth – Quando siamo partiti per tornare a Vienna, ad essere stati battezzati erano oltre 200 adulti e tanti bambini. Negli anni si è andata formando una vivace comunità cristiana. Con la gente abbiamo costruito una chiesa e siamo rimasti colpiti del loro impegno nel preparare e trasportare dalla montagna le grosse pietre necessarie per la costruzione. In quel momento abbiamo compreso che quella che stavamo costruendo era veramente la “loro” chiesa”.

Nel 2006, Elisabeth ed Enzo sono tornati a Vienna. Ma non si sono più sentiti “a casa”. “In Africa ci siamo confrontati direttamente con la povertà più profonda, che ti porta a lottare per la sopravvivenza – sottolinea Elisabeth – e non siamo più riusciti a comprendere la mentalità occidentale. Il nostro parroco, allora, ci ha detto che qui a Vienna, la povertà la si incontra nelle case di riposo e per lungodegenti, dove ci sono persone sole, che hanno paura di morire”. E così, superata la soglia degli 80 anni, Elisabeth ed Enzo hanno iniziato una nuova missione. “Andiamo a trovare gli ospiti delle case di riposo e nei centri per lungodegenti qui a Vienna, stiamo con loro e lo faremo finché le forze ce lo permetteranno”.

dal Sir