Cultura e costume

In dialogo con l’altro, sempre

Nelle scelte più radicali, nell’offerta di sé, ma anche nel prendere il cibo in comune si nasconde il senso della nostra vita: ce lo dicono tre libri molto diversi tra di loro

Pedro Poveda, il fondatore dell’Istituzione Teresiana, è stato un testimone esemplare della fede: la Chiesa lo ha proclamato esempio di virtù eroiche e fedeltà alla sequela di Cristo e lo ha canonizzato nel maggio 2003. Per gli avversari del cristianesimo invece era un nemico da abbattere a qualsiasi costo: la frangia estrema anarchica dei repubblicani all’inizio della guerra civile spagnola lo prelevò dalla sua casa e lo uccise dopo un processo-farsa. Era il 27 luglio del 1936. Ora un libro di Anna Doria, “Pedro Poveda. Un dialogo fede-cultura” ricostruisce le tappe fondamentali della vita e del contributo del sacerdote alla causa di un cristianesimo fatto di amore e attenzione all’altro, attraverso anche un interessante repertorio fotografico e una serie di contributi diretti (gli scritti di Poveda) o di testimonianze di chi lo ha conosciuto e seguìto nel suo magistero. Perché Poveda sentiva la necessità di testimoniare Cristo in prima persona in ambienti disertati dalla buona borghesia del tempo, come le grotte in cui vivevano i Gitani a Guadix, in Andalusia. Non solo: anche l’insegnamento era al centro del suo progetto di recupero delle basi cristiane in una società che in quegli anni si andava sempre più laicizzando in modo radicale e aggressivo verso la Chiesa. Il suo obiettivo era infatti piuttosto inviso agli ambienti avversi al cattolicesimo, perché con il suo esempio e la sua predicazione insegnava che la fede non è nemica né della scienza né della cultura, e questo rischiava di cancellare l’immagine di chiusura e arroccamento che alcune frange tentavano di offrire dell’essere cristiani. La sua ostinata lotta per una nuova visione della fede è però viva ancora oggi, perché è alla base della costante attività di organizzazione e promozione culturale -e scientifica- dell’Istituzione Teresiana.
Anna Doria, “Pedro Poveda. Un dialogo fede-cultura”, San Paolo, 94 pagine, 10 euro.

Il cibo, la comunità e la fede: oggi non siamo più capaci di vedere assieme queste componenti che un tempo erano strettamente legate, in un rapporto profondo che coinvolgeva affetti, lavoro, comunità, singoli. E’ Sabrina Vecchi, giornalista che lavora per l’Ufficio Comunicazioni Sociali della Chiesa di Rieti che ce lo ricorda nel suo “La trattoria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede”. Qui si parla anche (ma non solo) di cibo, inteso non come inutile e talvolta dannosa raffinatezza, ma come necessità, perché in questo libro intervengono soprattutto parroci, cuochi, vescovi, volontari che hanno rimesso non il cibo, ma la persona al centro di tutto. Anche attraverso il mangiare insieme. Certamente Benedetto XVI, sicuramente Francesco, ma la strada che percorre l’autrice è quella della condivisione e dell’essenziale, del dare e del consumare in rapporto non alle raffinatezze del gusto, ma alla necessità. Il che non vuol dire tristezza, anzi, gioia comune, ospitalità, condivisione, tutte cose che rischiano di essere cancellate con la spugna della paura dell’altro. La cura e la privazione dell’inessenziale divengono se mai nostalgia nel momento in cui uno avrebbe tutto, come padre Franco Nicolai, che “in questo angolo di pace al centro della città si sente inutile” per essere circondato da quelle che per lui sono comodità, “mentre i suoi bambini combattono con la fame”. Chi ha a che fare con il cibo, un cibo essenziale e se mai abbondante nella gioia di condividere una festa, viene da esperienze di aiuto e di condivisione anche della fame e delle ristrettezze, come Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna ma già colonna della Comunità di Sant’Egidio, che ha contribuito alla pace nel martoriato Mozambico, o, come Carlo Petrini creatore di Slow Food, che coniuga nutrimento con rispetto per la natura e abbandono dell’abitudine di mangiare tutto, e in tutti i sensi, senza tener conto degli altri e del futuro dei nostri figli. Ne emerge un pianeta, quello dell’alimentazione, che sembrava a tutta prima conosciuto, e che invece nasconde qualcosa di diverso, in grado di mettere insieme la ricerca di una vita più vera e una nuova comunità consapevole.
Sabrina Vecchi, “La trattoria del cardinale”, Paoline, 169 pagine, 15 euro. Prefazione di Domenico Pompili, introduzione di Fabio Zavattaro.

Le ragioni della preferenza da parte di un Pontefice sono tutte dentro il mondo narrato da Ethel Mannin nel suo ormai celebre, con parecchi decenni di ritardo, “Tardi ti ho amato”. Con una necessaria avvertenza: la scrittrice inglese, di radici irlandesi, nata assieme al ventesimo secolo e scomparsa nel 1984, che si autodefiniva “repubblicana, anti-monarchica e tolstoiana anarchica”, aveva idee piuttosto distanti da quelle che ci si aspetterebbe dalla preferenza dichiarata da papa Francesco, e dal titolo medesimo, che è un richiamo esplicito alle Confessioni di sant’Agostino. Antifascista, simpatizzante per il comunismo (i genitori avevano aderito al socialismo laburista) prima della visita nell’Urss di Stalin che le fece cambiare opinione, femminista coraggiosa e anticonformista, Mannin scrive, per tutti questi motivi, svincolata da qualsivoglia presupposto filo-cattolico. Ed è proprio per questo che ha colpito così tanto non solo un Papa, ma molte persone, di fede e non: questo romanzo è uno dei rarissimi esempi di assoluta onestà ideologica e intellettuale. Fuori dal mondo cattolico, anzi fautrice di idee radicali che spesso si trovarono in feroce contrapposizione con quel mondo, Mannin racconta la storia della conversione di un intellettuale, scrittore celebre, già ricco di suo, che proprio a causa di tutte queste cose sprofonda in un tedio senza remissione. Solo il lutto, il dolore, la lettura di Agostino, e i segni che -a saperli decifrare- ci parlano e ci salvano, solo la lenta, inesorabile consapevolezza che quella nausea lo sta portando alla fine, lo avviano verso una scelta diversa, quella di entrare nella Compagnia di Gesù. Andare via dalla pazza folla, come aveva scritto oltre mezzo secolo prima Hardy, un altro autore scosso da dubbi e da crisi interiori, morire al mondo per rinascere ad una nuova vita. È questa la storia di un uomo che se ne va per ritrovare il vero se stesso nella fede autentica, nella testimonianza radicale di questa fede, scritta da una donna che avrebbe avuto tutto l’interesse a deridere e affossare quel mondo. Per questo “Tardi ti ho amato è un libro da leggere”, oltre che per i suoi abissi, e per la sua radicale onestà. E bellezza.
Ethel Mannin, “Tardi ti ho amato”, Castelvecchi, 378 pagine, 19,50 euro.

dal Sir