Il virus nazionalista del Brexit, i pentimenti britannici e il futuro dell’Unione europea

Il referendum ha portato il Regno Unito – in crisi di identità – a un ulteriore isolamento, mentre non pochi cittadini invocano un ripensamento. Intanto l’onda populista si diffonde, dall’Austria alla Francia fino alle nazioni dell’Europa centro-orientale. L’impresa dell’integrazione comunitaria ha dalla sua parte razionalità e futuro, ma occorre una consapevole mobilitazione culturale e politica

In tempo di crisi, è forte la tentazione di seguire la corrente degli scettici e dei profeti di sventura che interpretano ogni evento critico, ogni difficoltà come segno del fatto che l’intera impresa è destinata al fallimento. Secondo questa logica, più volte è stato detto che il motivo della decisione della popolazione del Regno Unito di lasciare l’Ue sia un malessere rispetto all’“Europa” che imperversa non solo nel Regno Unito, ma in tutto il continente e che è annuncio di disintegrazione dell’Unione. Si ricorre anche al riferimento ai successi che in vari Paesi negli ultimi tempi hanno avuto partiti politici e movimenti xenofobi e contrari all’integrazione.

Se si osserva più da vicino, però, si può notare che la decisione in favore del “Brexit” non è per forza di cose espressione di una crisi dell’Ue

ma piuttosto appare come il risultato di un’atavica crisi d’identità britannica e del sistema politico del Regno Unito. Dimostrazione ne è la grande confusione che è scoppiata sull’isola dopo il risultato del referendum. Poiché dopo la decisione in favore del “Brexit” si è sgretolata una menzogna esistenziale della politica britannica: per decenni, Cameron, Farage, Johnson e molti dei loro predecessori e compagni di partito non hanno fatto altro che denigrare l’Ue e la politica di unificazione, dando a intendere che tutto il male venisse da Bruxelles, e che il compito più importante di Westminster fosse difendere la loro terra e la gente e proteggerle contro questo mostro burocratico.
La speciale sensibilità britannica rispetto al continente e al processo d’integrazione europea, a cui fin dall’inizio la politica britannica ha partecipato con un po’ di riluttanza, ha poco a che fare con l’euro-pessimismo, l’euro-scetticismo e l’ostilità verso il progetto di unificazione che vediamo in altri Paesi. C’è solo una cosa in comune: il nazionalismo, che – nonostante le brutte esperienze che tutti gli europei hanno in qualche modo vissuto nel secolo scorso – si diffonde di nuovo come un virus.

Questa volta il nazionalismo è alimentato da una generale perdita di sovranità degli Stati nazionali

e dall’illusione che otterrebbe migliori risultati per il proprio Paese e il proprio popolo una politica nazionale che non dovesse render alcun conto alla Comunità dei vicini.
La – parziale – perdita di sovranità è un elemento costitutivo e necessario per l’appartenenza all’Ue, sancito nei trattati a cui aderiscono gli Stati membri per libera decisione; prevedono norme vincolanti, essenziali per il funzionamento dell’Unione.

La perdita di sovranità tangibile e visibile in particolare attraverso la moneta comune è la ragione della dura opposizione dei nazionalisti che sono sul piede di guerra contro l’euro.

Non vogliono riconoscere, e tanto meno accettare, che in un contesto di globalizzazione, gli Stati-nazione possono crescere e svolgere i propri compiti solo se condividono la propria sovranità con i vicini.
Per i cittadini dei Paesi dell’Europa centro-orientale, che hanno riottenuto la loro indipendenza solo da pochi anni e hanno così potuto unirsi al movimento di unificazione europea, non deve essere facile seguire questa intuizione. Tuttavia in questi Paesi –  nemmeno in Polonia o in Ungheria – non sono state assunte iniziative che potrebbero mettere in questione la loro adesione all’Unione europea. Nella coscienza del popolo è troppo profondo il legame tra la nuova libertà e la loro appartenenza all’Europa democratica, cioè all’Unione europea.
In Francia, Paesi Bassi e Austria, ma anche in Italia o nei Paesi Scandinavi, per problemi “caserecci” ma di cui si attribuisce la responsabilità all’Unione europea, i partiti e i movimenti xenofobi, populisti e antieuropei hanno successo, a dispetto delle condizioni strutturali, culturali e sociali, al punto che buona parte delle persone in questi Paesi potrebbe essere disposta a lasciarsi coinvolgere nell’avventura nazionalista. L’esempio che ora dà il Regno Unito in questo contesto dispiega tra l’altro il suo effetto intimidatorio.
L’Unione europea potrà trarre beneficio dal “Brexit” se negli Stati membri si trarranno le giuste conclusioni dal disastro e dall’isolamento a cui la politica britannica ha portato il Paese e i cittadini britannici. Adesso,

sulla base di quanto è già stato realizzato, c’è la possibilità di compiere i prossimi passi verso una “unione sempre più stretta” di Stati e popoli d’Europa,

a cui ci invitavano i padri fondatori 70 anni fa.
L’impresa dell’unificazione dell’Europa, che nell’attuale crisi di lungo corso è attaccata non solo dai soliti scettici, ma anche dai movimenti nazionalisti, xenofobi e nostalgici, merita di essere difesa. Ha, dalla propria parte, razionalità e futuro e ha già dimostrato in passato che è in grado di contrastare le crisi. Per far questo occorre affrontare le cause stesse della crisi, mobilitando dal punto di vista culturale e politico tutte le forze che potranno condurci oltre.