Il vescovo Domenico: «nell’amore siamo tutti analfabeti di ritorno»

«Cosa vuol dire amare?» È la domanda cui ha provato a rispondere il vescovo Domenico ragionando sulla figura di san Giovanni Bosco durante mattinata di domenica 31 gennaio. Nel giorno della festa del fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mons. Pompili ha infatti celebrato la Messa nell’omonima parrocchia di Villa Reatina, dopo essere stato accolto da un momento di festa sul sagrato.

E proprio a partire dall’esperienza di don Giovanni Bosco, «che ha rivoluzionato il metodo educativo proprio a partire dall’amore» il vescovo ha preso per mano i fedeli conducendoli alla comprensione dell’«inno all’Agape» scritto da San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi.

Gli antichi erano molto più raffinati di noi quando parlavano dell’amore. Noi quando diciamo “fare l’amore” pensiamo ad una cosa sola. Ma gli antichi avevano parole diverse. Ad esempio, per l’amore verso gli animali, usavano un termine; per l’amore tra gli amici usavano un altro termine; per l’amore tra gli innamorai ne usavano un altro ancora; per l’amore di Dio ne usavano un quarto: Agape. È l’amore più radicale: non quello istintivo degli animali, non la filìa degli amici, né l’eros degli innnorati.

«L’Agape è una miscela esplosiva che consente di far sbocciare tutto, di far crescere anche i ragazzi più disperati, di sviluppare anche nelle situazioni più impossibili qualcosa di inedito e di positivo» ha spiegato il vescovo, ricorrendo alle definizioni paoline: «l’Agape non si vanta e non si gonfia: chi veramente ama non si mette troppo in evidenza». L’amore è cioè «normale», come quello dei genitori per i figli: un qualcosa di «talmente ovvio, semplice, quotidiano, che non ce ne rendiamo conto».

Poi, prosegue Paolo, «L’Agape non cerca il suo interesse». Un atteggiamento che don Domenico ha confrontato a quello del politico che «fa piaceri qua e la per allargare il consenso nella propria base elettorale: Gesù no, non cerca il suo interesse». Una posizione valida in particolar modo per chi educa, perché «non può semplicemente “accontentare”, ma deve essere capace di dire anche “no”, deve essere pronto anche a qualche momento di tensione, e non a negoziare ogni volta tutto».

Da ultimo, secondo Paolo, «l’amore non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità». Vale a dire che «l’amore non è, come spesso pensiamo, un atto di debolezza, quasi che se amiamo siamo più precari perché ci esponiamo. L’amore nasce sempre da una personalità forte, che ha un tale senso della propria persona da preferire la verità e rifiutare l’ingiustizia». Una dimensione che si conquista «quando sappiamo chi siamo, quello che vogliamo, quando sappiamo dare del “tu” al nostro io più profondo».

«L’Agape – ha concluso il vescovo – è un cammino. In una cosa siamo tutti analfabeti di ritorno: nella capacità di voler bene veramente. Nessuno pensi di essere mai veramente arrivato alla fine, ma di essere sempre tutti in cammino. Questo è il percorso che ci è dato, per essere, come Gesù, in movimento: giovani e adulti, bambini e anziani. Come scriveva in una sua celebre pagina san Giovanni Bosco: “Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e ce ne dà in mano le chiavi”».