Chiesa di Rieti

Il vescovo a Terminillo per l’Assunta: «Maria modello della relazione»

Una bella riflessione di taglio antropologico quella del vescovo Domenico durante la Messa vespertina dell’Assunta celebrata sul monte Terminillo

Una bella riflessione di taglio antropologico quella che hanno potuto ascoltare dal vescovo Domenico i partecipanti alla Messa vespertina dell’Assunta celebrata all’ombra dei faggi e del campanile che svetta sul monte Terminillo. Dopo esservi stato una settimana prima per festeggiare la Trasfigurazione del Signore insieme alla fraternità monastica che a tale mistero è intitolata, monsignor Pompili è tornato al monte per presiedere l’Eucaristia che, secondo consuetudine, vede il pastore della diocesi salire al tempio di San Francesco nel tardo pomeriggio del 15 agosto.

Nel cortile parrocchiale erano radunati in tanti, tra affezionati del templum pacis, villeggianti e diversi che avevano trascorso la giornata ferragostana nella stazione turistica. A tutti si è rivolto il vescovo Domenico traendo dalle letture della liturgia lo spunto per tracciare, attraverso la figura della Vergine assunta in cielo, l’elogio della donna nella sua pienezza di significato.

A partire dall’immagine dell’Apocalisse, la celebre visione di Giovanni della “donna vestita di sole”. Un’immagine, ha precisato don Domenico, che «rivela quale sia il destino dell’umanità, alludendo a una donna che sta per diventare madre». E ha citato Mia Martini, che in un passaggio di un suo brano di successo cantava “Gli uomini sono figli delle donne, ma non sono come noi”. «Resta però vera una cosa indiscutibile, che è ciò in cui consiste il destino dell’umanità: solo con la donna l’uomo può generare, altrimenti può solo fabbricare».

Nonostante le tecnologie che possono farci inventare altro, «resta vero che solo attraverso questo intreccio tra l’uomo e la donna la vita si perpetua, si genera».
Una verità che la pagina evangelica della visita di Maria alla cugina Elisabetta emerge in modo limpido: un incontro tra due donne gravide, che, ha detto monsignore, «da incontro a due si trasforma in incontro a quattro, perché anche i loro relativi bambini si muovono». Sta qui l’essenziale differenza tra il maschio e la femmina: «il maschio è “uno”, la femmina è “due”, perché è strutturalmente costruita affinché dentro il suo corpo si faccia spazio a un altro». Caratteristica della donna è infatti «essere aperta alla relazione, mentre noi maschi siamo “uno” perché per noi prima della relazione viene l’identità»

Pompili ha tenuto ha evidenziare il valore della reciprocità tra il maschile e il femminile: quanto mai importante «ritrovare, anche ai nostri giorni, l’intreccio fecondo tra l’uomo e la donna». Una relazione che sembra essere «una delle cause strutturali della fatica che oggi facciamo a vivere insieme», laddove «si va imponendo il modello della complementarietà tra uomo e donna, facendo però leva sulla divisione dei compiti, che alla fine risulta sempre svantaggioso per la donna». Da riscoprire invece, secondo il vescovo, un’altra categoria che è quella della reciprocità: è questa che permette di «riconoscere al tempo stesso l’uguaglianza e la differenza».

In concreto, monsignore ha invitato a cogliere «nella donna, e conseguentemente nell’uomo, ciò che è altro, che non è però alieno». Una differenza importante, secondo il vescovo, questa tra l’alter (un’alterità tra due soggetti complementari) e l’aliud (una estraneità): è un po’ questo «il nervo scoperto della nostra generazione, ancora non riuscita a trovare un equilibrio in questa relazione di reciprocità», laddove si fatica a riconoscere l’altro «imponendo talvolta forme, ormai superate, di dominanza dell’uno sull’altro».

Ma d’altra parte evidente «il tentativo, che si sta diffondendo a macchia d’olio, di annullare la differenza in nome di una sorta di neutralità» tendendo a considerare maschio e femmina come equivalenti. Due estremi entrambi molto problematici, ha rimarcato Pompili: «quando non siamo in grado di accoglierci reciprocamente», inevitabile che, conseguentemente, «a cascata tante altre forme di intolleranza si facciano strada».

Concludendo, l’invito a invocare Maria, «che porta in grembo Gesù e per definizione aperta alla relazione», con le parole che Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, mette in bocca a san Bernardo, rivolgendosi alla “Vergine Madre” come colei che raduna in sé quantunque in creatura è di bontate.