Il segreto di Van Thuân? Nella sua vita buona

A colloquio con monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, che lo ha conosciuto bene. Ripercorre i tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento. Sorretto da una speranza inestinguibile, “mentre veniva ‘rieducato’ in maniera forzata… rispose facendo dono di se stesso e di Gesù Cristo, considerato la massima ricchezza. Le guardie divennero suoi amici e scolari. La sincerità delle sue relazioni cambiarono i rapporti all’interno della prigione”.

È un pezzo di filo elettrico lungo qualche decina di centimetri e una croce intagliata nel legno, nascosta all’interno di un sapone, ad aver accompagnato per tredici lunghi anni di prigionia il cardinale vietnamita François-Xavier Van Thuân, di cui si conclude oggi l’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù eroiche e la fama di santità. Ne abbiamo parlato con monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, che del card. Van Thuân ha avuto conoscenza diretta negli anni della sua permanenza a Roma e ha curato l’edizione delle “Dieci A da ricordare nella vita” (Città Nuova) sulla scorta degli esercizi spirituali predicati dal cardinale poco prima di morire.

“La fede che mi piace di più è la speranza”. Sono parole del poeta francese Charles Péguy che ben si adattano alla figura del cardinale Van Thuân…

“La speranza è coniugazione della stessa fede. Per il card. Van Thuân era evidente che la speranza è fondata su Gesù Cristo, il quale è all’opera qui ed ora con la sua salvezza. La speranza, radicata nella comunione con Gesù Cristo, unico salvatore del mondo sollecita a vivere il momento presente, confidando nell’aiuto del Signore, colmando ogni momento della nostra esistenza di amore. La vera speranza invita a non rimandare ciò che dev’essere fatto oggi. Sprona a pensare non tanto al numero delle azioni da compiere, bensì all’intensità di amore da mettere in ognuna di esse”.

Tredici anni di prigionia, di cui nove vissuti in isolamento, a causa della propria fede. Una testimonianza di coraggio e perseveranza?

“La prigionia è stata, come egli scrive nei suoi libri, un periodo in cui si è trovato nel ‘buio della notte’, in un oceano di amarezza, di ansietà, d’incubo. Da tutto ciò è emerso con la preghiera, facendosi dono a Dio, vivendo Cristo: ‘Sono in prigione, se aspetto il momento opportuno per fare qualcosa di veramente grande – scrive -, quante volte nella vita mi si presenteranno simili occasioni? No, afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario’. Gesù, io non aspetterò, vivo il momento presente, colmandolo di amore’. E così, il vescovo Van Thuân, pur prigioniero, in condizioni di povertà e di ristrettezze di libertà, non si è perso d’animo, non si è abbandonato all’odio nei confronti dei suoi carcerieri. Tutt’altro. Mentre veniva ‘rieducato’ in maniera forzata egli, pur vivendo in una situazione di emergenza, rispose facendo dono di se stesso e di Gesù Cristo, considerato la massima ricchezza. Le guardie divennero suoi amici e scolari. La sincerità delle sue relazioni cambiarono i rapporti all’interno della prigione”.

Dalla raccolta di scritti in carcere emerge con chiarezza il richiamo al senso del dovere in ogni campo della vita sociale…

“In momenti di forti contrasti sociali e di degrado politico tende a prevalere la lotta di tutti contro tutti, l’assolutizzazione del proprio punto di vista, l’odio nei confronti degli altri, considerati come scomodi concorrenti. I più forti sono propensi a vedere i più deboli quali ‘vite da scarto’, come ha recentemente ricordato Papa Francesco, sulle orme del sociologo Zygmunt Bauman. Da dove ripartire per avere anzitutto un nuovo sguardo sugli altri, una nuova relazionalità sociale, improntata alla fraternità e al pro-essere? Dal sentirsi persone simili e solidali, ossia parte degli altri. Il bene degli uni dipende dal bene degli altri. Occorre sentirsi responsabili non solo di se stessi, ma anche degli altri. Occorre mettersi in gioco per prendersi cura degli altri e del bene comune. La santità va ricercata non tanto nel compiere imprese sensazionali quanto piuttosto nel compiere anzitutto il proprio dovere quotidiano con amore e competenza. La qualità della profezia si misura sulla capacità di vivere una vita buona, ponendola a servizio degli altri e del bene comune, con l’amore pieno di verità che è Cristo stesso”.

Ha un ricordo personale del card. Van Thuân?

“Mentre ero decano della Facoltà di filosofia, presso l’Università pontificia salesiana giunsero dal Vietnam, dopo il mitigarsi dei rigori del regime comunista, le prime generazioni di post-novizi per i corsi filosofici e teologici. Mi hanno sempre colpito la sensibilità pastorale e la maestria pedagogica del vescovo Van Thuân, allora vicepresidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Egli riuniva periodicamente i giovani vietnamiti avviati al sacerdozio. Li veniva a trovare e li invitava a momenti conviviali, durante i quali la sua paternità si manifestava in una dimensione familiare. A me raccomandava mitezza e fraternità. Se non si trattano bene le prime generazioni di vietnamiti salesiani, in Europa non ne arriveranno più, mi confidava”.