Il rene “samaritano”: gesto d’altruismo che interroga le coscienze

Per Adriano Pessina, direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, «la medicina deve seguire la via ordinaria dei trapianti da cadavere». Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, sostiene invece che «donare un organo a un estraneo manifesta ancora di più “quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione».

Un gesto di donazione la cui “onda lunga” scuote menti e cuori. Ma il risultato immediato della prima donazione d’organo (un rene) “samaritana” in Italia, conclusasi con successo, è che ben 6 persone in attesa di un rene da trapiantare potranno abbandonare il gravoso peso della dialisi e tornare a vivere con un organo nuovo. L’aggettivo “samaritana” (in riferimento all’omonimo brano del Vangelo di Luca) riferito alla donazione d’organo sta ad indicare il fatto che il donatore, vivente, non è a conoscenza del beneficiario del suo dono né ha con esso relazioni di parentela.

Operazioni “cross over”. In Italia, questa tipologia di donazione (permessa anche negli Usa, in Olanda e in pochi altri Paesi) è autorizzata già dal 2010, ma finora non si era mai verificato alcun caso concreto. Fino a martedì scorso, quando nella mattina è iniziata la catena di solidarietà che si è conclusa con successo 72 ore dopo. All’origine, il gesto di donazione di una persona (la cui identità resta sconosciuta per sua espressa volontà) di Pavia, che ha scelto di donare uno dei suoi reni con la modalità “samaritana”. Questo gesto ha dato il via a una serie di prelievi e trapianti incrociati (“cross over”) fra 5 coppie donatore-ricevente (mariti e mogli o fratelli e sorelle), idonee al trapianto ma ancora in lista d’attesa per incompatibilità immunologica o di gruppo sanguigno.

Diecimila persone sperano… Il meccanismo è stato di questo tipo: il rene della donazione “samaritana” è andato al ricevente (compatibile) della prima coppia a Siena, liberando così un donatore che ha potuto cedere il proprio rene al ricevente di un’altra coppia a Milano, e così via, passando per Pisa e poi di nuovo a Milano, dove l’ultimo beneficiario della catena, un paziente in lista d’attesa per un rene da cadavere, ha invece ricevuto l’organo da donatore vivente. Il trasporto degli organi – che necessariamente deve essere tempestivo e rapido – da una città all’altra è stato assicurato dalla Polizia di Stato. Questa complessa operazione, organizzata e coordinata dal Centro nazionale trapianti, sotto la direzione di Alessandro Nanni Costa, ha coinvolto ben 4 ospedali e 11 squadre di operatori sanitari, per un totale di circa 150 persone fra chirurghi, anestesisti, rianimatori e infermieri. Secondo i dati ufficiali, nel 2014 sono stati eseguiti complessivamente 1.587 trapianti di rene da cadavere e 252 tra viventi (con un piccolo incremento rispetto all’anno precedente). Ma ancora circa 10mila persone in dialisi, candidate al trapianto, sono in attesa di un organo disponibile.

Domande per il futuro. Riassunti i fatti, ritorniamo all’“onda lunga” di questo gesto che suggerisce qualche riflessione. Di certo, la scelta altruistica di questo donatore “samaritano” non è, né lo potrebbe essere, un banale episodio di routine sanitaria. Al di là delle difficoltà tecnico-organizzative, peraltro in questo caso brillantemente superate, non possono non emergere alcuni interrogativi etici generali che guardano al futuro, soprattutto in vista di possibili repliche di una scelta di questo tipo. Data per scontata l’esigenza della gratuità della donazione (che in Italia è anche prescritta dalla legge), non si può infatti dimenticare che essa, pur con finalità puramente umanitarie e altruistiche, comporta comunque in vita una menomazione volontaria del proprio corpo, con potenziali successivi problemi di salute. Fino a che punto può essere quindi giustificata? Potrebbe ad esempio essere prevista, oltre al rene, anche per altri organi “non vitali” (porzione di fegato, cornee)? Alcuni bioeticisti obiettano che un simile sacrificio può trovare giustificazione solo se è in gioco la vita di persone a noi care, per il forte legame che ci unisce a loro. Per Adriano

Pessina, ordinario di filosofia morale e direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, “se si giudica solo l’esito, è difficile non vedere la positività di questa donazione filantropica, visto che ha innescato, così si dice, una catena di ‘donazioni’, ma sarei molto cauto a esaltare questa pratica. La medicina deve seguire la via ordinaria dei trapianti da cadavere”. “Il corpo vivente – chiarisce Pessina – non può essere pensato come una banca o una riserva di organi messa a disposizione del fabbisogno sanitario. Donare un rene significa, di fatto, permettere una mutilazione del proprio corpo e quindi sacrificare la propria integrità e salute: in via eccezionale, questo sacrificio ha senso proprio in forza dei legami familiari e amicali che lo giustificano: qui il dono è fatto alla medicina, e non propriamente a qualcuno, visto che non si sa a chi si dona”.

“Dono sincero di sé”. Altri pensano che non vi sia una rilevante differenza morale tra la donazione finalizzata a un proprio caro o a un estraneo. È il caso di Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, che, tra altri aspetti eticamente rilevanti, sottolinea anche come “il fatto di donare un organo a un estraneo manifesta ancora di più ‘quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione’, come sottolinea il Magistero cattolico a proposito della donazione da vivente”. “Nelle donazioni da vivente – aggiunge Spagnolo – occorre assicurarsi che il donatore compia la sua scelta effettivamente libero da condizionamenti psicologici e morali, a prescindere da chi sia il ricevente”. “In definitiva – conclude Spagnolo -, la motivazione del donatore deve essere attentamente valutata al fine di evitare che la donazione si configuri come una manifestazione narcisistica o autolesionistica o che sia espressione di un rifiuto della propria vita o ancora che sia dovuta a una non piena consapevolezza delle implicazioni che l’intervento comporta”.