Il lavoro è la possibilità di dire Io

Discutiamo del problema della crisi dal punto di vita dei quarantenni con Antonio Sacco, conduttore televisivo e attento osservatore dei temi vicini al lavoro e all’integrazione sociale.

Antonio, parliamo della nostra situazione generazionale, quella dei nati a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70. Come vivono in questo tempo di crisi?

Sentono di essere vittime dell’imbroglio di una società che si crede evoluta, emancipata, apparentemente progressista, ma che in realtà è ferma e falsa. Viviamo come se alle nostre generazioni toccasse di essere trainate dalla crescita sperimentata dal boom fino a tutti gli anni ‘80. In realtà l’oggi mette a dura prova le persone che vanno dai 30 ai 50 anni. Certi modelli resistono solo come mito mediatico. Quello che si sperimenta davvero è la mancanza della sicurezza e delle prospettive con cui i nostri genitori erano cresciuti e in qualche modo prosperati.

Spiegati meglio…

Basta leggere i giornali. Dobbiamo abbracciare tutti quanti la liberalizzazione. Non una qualche liberazione, facciamoci caso. Ma al di là dei bisticci di parole, di quali “lacci” dovremmo fare a meno per stare meglio? Stiamo scoprendo che il nostro destino non ricalcherà quei percorsi che finora avevano garantito qualche soddisfazione. In tanti sono sorpresi, nessuno ci ha avvisato. E chi ha tracciato certe scelte è stato capace di convincerci che di lì passava il nostro bene. Abbiamo digerito due termini che ci hanno reso quasi impossibile la vita: flessibilità e adattabilità. Eravamo cresciuti sotto il tetto di due parole diverse: stabilità e miglioramento. Ci si dice fosse un falso ideologico. Sarà, ma all’interno di quel falso sono cresciute le generazioni che hanno stabilizzato la vita sociale del Paese. Si lavorava, si produceva, si socializzava. C’era entusiasmo. Forse perché il benessere era diffuso in modo più omogeneo e quasi tutti percepivano la prospettiva del miglioramento.

Il centro del discorso è il lavoro?

Il lavoro è la possibilità di dire Io. Quello che oggi chiamiamo occupazione non risponde a questa esigenza, cioè non è lavoro. La tendenza è a vedere le persone ridotte a compiti puramente astratti e funzionali. Quando non servono più gli viene semplicemente chiesto di cambiare, secondo esigenze imprevedibili. Così si distruggono competenze anche alte, identità costruite con anni di dedizione alla fabbrica, al commercio, ai servizi. In cambio, quando va bene, c’è l’offerta di un percorso di riqualificazione ed un minore stipendio. Se non gli va o non gli riesce sono semplicemente fuori ed il problema è tutto loro. C’è qualcosa di profondamente inumano in questo, e a farne le spese sono l’amor proprio e la famiglia.

Che c’entra la famiglia?

Oggi tutto concorre alla riduzione della persona alla sua individualità. Risponde meglio al sistema economico sia come consumatore che come parte della produzione. Questa spinta pare essere il primo motore del disgregamento sociale. La famiglia non può che risentire di questa impostazione. È diventata obsoleta perché, come il “posto fisso”, è a tempo indeterminato. Ostacola un certo tipo di dinamica economica. Ma è una cosa così naturale che ci è difficile farne a meno. E allora ci siamo costretti a snaturarne il senso per adattarla ad esigenze non sue. Il ventaglio che va dalle mononucleari a certe famiglie allargate corrisponde al bisogno ideologico di lasciar trionfare l’individuo. Un successo che ha alti costi sociali ed economici, scaricati sulla precarietà e l’incertezza. Una sofferenza che grava soprattutto sulla generazione di mezzo. E il tutto ha il sapore di un fallimento che forse non siamo neppure intenzionati ad ammettere.

Eppure il modello attuale è stato promosso un po’ da tutti…

Forse c’è stata una eclissi del pensiero critico. O le sirene di un progresso tanto annunciato, quanto mai visto, hanno tratto in inganno pure le menti migliori. Ma quanti lavoratori stanno patendo adesso? Quanti stanno cadendo nella battaglia? Anche nel piccolo osservatorio della nostra città vediamo ogni giorno qualcuno messo da parte. Le prime pagine dei giornali paiono il bollettino di continue sconfitte. Sarà pure un luogo comune, ma basta provare a guardare chi sono gli assistiti dalla Caritas.

Ma come se ne esce?

Non se ne esce. Abbiamo imboccato un tunnel e non se ne vede la fine. Piuttosto bisognerebbe cambiare strada. Basta ascoltare le considerazioni del presidente dell’INPS Mastrapasqua per capire che non si può semplicemente proseguire. Ha definito il buon lavoro per le nuove generazioni una scommessa. Dovranno alimentare il loro conto previdenziale con i soli contributi versati negli anni di attività. Ormai non è inusuale iniziare a lavorare a 35 anni. Ammesso di riuscire a mantenere il posto, si arriverà a 70 anni con 35 anni di contributi per percepire appena il 50% dell’ultima busta paga. Chiamano alla scommessa intere generazioni, quasi si possa ridurre a un calcolo delle probabilità la dignità del proprio futuro e del proprio lavoro. Avere attorno ai quarant’anni oggi vuol dire vivere in un gratta e vinci. Se lo dice la Previdenza Sociale ci si può credere.