Il lavoro on demand? È l’esempio del lavoro possibile

Il moltiplicarsi, soprattutto nei Paesi anglosassoni, delle “app” che facilitano l’incontro fra domanda e offerta (vedi Uber) mostra i limiti del sistema italiano. Il sociologo Paolo Feltrin: “Mi pare che il legislatore tenda a voler ‘mettere le brache al mondo’, nel senso che pretende di normare tutte le fattispecie e tutte le modalità. Così facendo si impediscono l’eccezione e la creatività”.

Negli Stati Uniti il 2014 ha visto la creazione di 3 milioni di nuovi posti di lavoro. In Germania l’occupazione non è mai stata così ampia e diffusa, anche grazie ai mini-job (lavori part-time). La Gran Bretagna continua ad attirare giovani da ogni parte d’Europa (e non solo) per via delle notevoli opportunità occupazionali. Perché tutto questo non avviene anche in Italia? La risposta che viene dalle cronache economiche e dagli studi accademici è che quei Paesi hanno una mentalità “amica del lavoro”: pur variamente connotati quanto a contratti, regimi pensionisti, sistema di tutele, tali paesi mostrano di essere accomunati da flessibilità, fantasia, possibilità di assumere e licenziare senza troppi vincoli e “traumi”.

Tra le novità di questi ultimi tempi, a partire come al solito dagli Stati Uniti, sono arrivate le forme di lavoro “a chiamata” (on demand, se preferite), legate alle “app” del cellulare. Così, tanto per fare degli esempi che hanno suscitato interesse nella pubblicistica mondiale, accanto all’ormai arcinoto e combattuto servizio di Uber (autisti su chiamata, avversati dai taxisti) hanno assunto notorietà Handy che offre personale domestico e artigiani vari, SpoonRocket che consegna pranzi interi già pronti, Instacart che tiene il frigorifero sempre rifornito. E ancora la “app” per cellulari Medicast vi fa arrivare un medico a casa entro due ore con diagnosi anticipata on-line, Axiom vi noleggerà un avvocato.

Eden McCallum vi fornirà un consulente aziendale (al 70% di costo in meno rispetto a McKinsey), Freelancer.com oppure Elance-oDesk vi forniranno lavoratori o professionisti di varie specializzazioni. Siamo, ovviamente, negli Usa, nazione avvezza a questa creatività sociale quasi estrema, dove le regole sul lavoro sono ridotte all’osso e si può essere licenziati in cinque minuti e assunti poche ore dopo in un’altra azienda: basta avere il proprio codice fiscale e la posizione pensionistica del 401K, e il gioco è fatto. Mentre attendiamo i decreti attuativi del Jobs Act da poco varato, abbiamo provato a chiedere al sociologo Paolo Feltrin dell’università di Trieste se queste prospettive di liberalizzazione del lavoro in Italia siano possibili.

Cosa ne pensa del lavoro on demand, magari richiesto via internet?

“La mia idea è che, nel bene o nel male, questo è il lavoro che c’è in epoca contemporanea, come mostrano i risultati americani, inglesi, tedeschi. Ciò non vuol dire ‘mitizzare’ queste esperienze, ma semplicemente ammettere che il gioco della storia nella nostra epoca va in questa direzione. Sta a noi decidere se lo vogliamo o no”.

Eppure in Italia ci sono voluti anni per modificare l’art. 18, e non per tutti.

“Occorre evitare i due oppositi atteggiamenti: di chi mitizza il lavoro flessibile e di chi lo rifiuta a priori. Invece, il giusto atteggiamento dovrebbe essere quello di dotarci di tutte le regole che rendono il lavoro possibile, renderle operative e quindi, se è il caso, intervenire per migliorarle”.

Le sembra che il Jobs Act vada nella direzione dello snellimento del lavoro?

“Nell’ultima riforma del lavoro, ma anche in quelle precedenti sulla liberalizzazione del tempo determinato, ci sono misure che vanno in quella direzione: ad esempio, aver tolto la casualità sulla risoluzione, aver snellito la possibilità di assumere e licenziare nei primi tre anni, aver rafforzato il meccanismo dei voucher, sono misure a mio giudizio favorevoli a una maggiore creazione di posti di lavoro. Solo sperimentando queste novità ne vedremo la reale portata ed efficacia”.

Secondo alcuni il sistema italiano rimane di fatto “rigido”. Cosa ne pensa?

“Il punto è che non si può regolamentare tutto, bisogna lasciare che il mondo esprima le sue esigenze e la sua molteplicità. Mentre in Italia mi pare che il legislatore tenda a voler ‘mettere le brache al mondo’, nel senso che pretende di normare tutte le fattispecie e tutte le modalità. Così facendo, si impediscono l’eccezione e la creatività. L’atteggiamento più giusto sarebbe di tipo empirico: lasciare una certa libertà e, se emergessero abusi, si vedrà come combatterli e annullarli. In un campo così decisivo come il lavoro, specie per i giovani, io sono dell’idea dei ‘due tempi’: prima si sperimenta il nuovo, prendendo esempio anche da chi ha dimostrato di avere successo, e poi semmai si corregge”.