Il caso Charamsa. Considerazioni giuridico-scientifiche (e non solo) su un caso che scuote la Chiesa

A dar retta a quanto sta accadendo, recentemente, anche all’interno – anzi, soprattutto all’interno – di Santa Madre Chiesa verrebbe da pensare ( e il pensiero è affatto peregrino) che in qualche modo ci si trovi di fronte ai “segni degli ultimi tempi”. La Chiesa è sposa di Cristo, Suo corpo mistico, e lo Sposo – nei Vangeli – descrive tali segni che, pur inquietanti, non possiamo non considerare nella loro attualità. Ma i segni che più scuotono e sconvolgono non sono tanto quelli “naturali” quanto quelli spirituali. A tal proposito è impressionante l’attualità di quanto san Paolo dapprima predice a Timoteo nella sua prima lettera: “Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, gia bollati a fuoco nella loro coscienza”.

Devi anche sapere – dice l’Apostolo delle genti rivolto al suo discepolo, ma stavolta nella seconda lettera – che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore

Una profezia? Sicuramente: quanto descritto da Saulo di tarso, 2000 anni orsono, appare come lo specchio dei tempi odierni, dove gli uomini sempre più sembrano rispondere a tali caratteristiche.

Momenti difficili, dice Paolo. Terribili, probabilmente, se addirittura hanno determinato le dimissioni – le prime nella storia – di un papa che per tutto il pontificato di Woityla ne è stato il cardine dottrinale e teologico.

Il caso Charamsa – personaggio di spicco nella Curia romana, nei suoi ambienti dottrinali ed universitari – risveglia in qualche modo l’allarme che tale gesto di papa Benedetto ingenerò e richiama alla mente le parole di un papa Francesco che, appena eletto, si sbilanciò sull’esistenza di una potente “lobby gay” presente in Vaticano (incontro con  i rappresentanti della Confederazione latinoamericana e dei Caraibi dei religiosi e delle religiose del 16.06.2013).

Appena 43enne, mons. Charamsa aveva già avuto ruoli rilevanti nella Chiesa e di lui, senza alcun dubbio, si poteva pronosticare un luminoso futuro. Particolarmente rilevanti – e per questo ancor più stridenti con il “coming out” operato solo lo scorso 3 ottobre – sono stati i suoi incarichi in materia di fede, dottrina, teologia. È proprio in teologia che si laurea a Lugano, ed il titolo della sua tesi colpisce alla luce del suo gesto clamoroso: “Dio soffre? L’insegnamento della Chiesa sull’impassibilità divina in vista di certe critiche moderne della dottrina”. Quel “certe” non appare certo un inciso modernista che lasci presagire il recentissimo e brutale revirement di pensiero, come conferma poi il dottorato, ottenuto presso la prestigiosa Gregoriana, a Roma ed il cui tema riguarda uno dei capisaldi teologici di santa Romana chiesa: “L’immutabilità di Dio. L’insegnamento di San Tommaso d’Aquino nei suoi sviluppi presso i Commentatori scolastici”. E tutto questo solo nel 2002: l’anno dopo, confermando il suo valore, Charamsa ottiene anche  il Diploma superiore di lettere latine e il Diploma di Licenza in Filosofia nel 2003.

A soli 31 anni ha uno straordinario curriculum e già l’anno dopo – giovanissimo – ottiene presso il pontificio ateneo “Regina Apostolorum” l’insegnamento per le cattedre di Teologia Spirituale nell’Istituto di Scienze Religiose connesso con l’ateneo e di Bioetica ed Etica medica nello stesso. Incarico di prestigio reso ancor più ricco nel 2009 allorchè assume l’insegnamento presso la Pontificia Università Gregoriana. Anche da un punto di vista “politico” mons. Charamsa sembra bruciare le tappe: nel 2011 diviene segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale.

Parrebbe il curriculum di uno strenuo difensore della teologia morale cattolica e di un saldo apologeta della dottrina cristiana: un pilastro nel cuore, nelle fondamenta della Chiesa. Il 3 ottobre, l’annunzio choc: “sono gay ed ho un compagno”, dice. “Lo faccio per scuotere un po’ questa mia Chiesa” – aggiunge, quasi timidamente. Ma poi rompe gli indugi ed accusa “l’ex sant’uffizio, cuore della Chiesa omofoba”.

Il sacerdote, lo studioso, l’intellettuale che costruiva la sua fede sull’immutabilità, l’impassibilità di Dio, chiede ora che la Chiesa non attenda altri 50 anni, ma modifichi la sua dottrina anzi: la stravolga completamente. Riconosca non solo gli omosessuali, ma anche la loro forma di amore e le loro unioni.

I gesti e le scelte personali, si sa, sono insindacabili. Tuttavia stupisce, nel merito, quanto affermato da chi – per i suoi studi e per le frequentazioni degli ambienti universitari vaticani – ben dovrebbe conoscere quelle “pietre angolari” che ora vorrebbe scardinare e quelle norme che lui stesso, liberamente, ha scelto di seguire ed alle quali ha aderito promettendo fedeltà e che ora – quasi novello Lutero – vorrebbe ribaltare, scardinare, distruggere.

Bene ha detto il nostro vescovo allorché, intervistato da La 7, con la sobrietà e la moderazione che gli si riconoscono ha affermato: “Diciamo che se il segretario della commissione teologica internazionale avesse presentato una bella catalana con cui andare insieme in Spagna sarebbe stata la stessa cosa. Non è che ci sia qualcosa che non va. L’amore è una cosa assolutamente desiderabile, è quello che tutti noi sogniamo. Ma nello specifico del prete c’è l’aver fatto una scelta, di aver preso l’impegno di non sposarsi, di non vivere la dimensione della sessualità in senso stretto”.

Il problema di un sacerdote, di un presbitero, di un ministro di Dio, non è essere gay o etero: è, come dovrebbe essere esattamente nella vocazione matrimoniale, vivere la propria vocazione esercitando la continenza. che nel matrimonio è parziale e rivolta al rispetto del coniuge ed all’apertura alla vita e che, invece, nel sacerdozio, viene definita perfetta.

“Non vivere la dimensione della sessualità in senso stretto” afferma il nostro vescovo, con un tatto ed una delicatezza straordinari. Ma a tal proposito il diritto canonico è chiarissimo poiché, nell’esplicitare il precetto da rispettare, ne da anche la ratio normativa, di straordinario significato morale e spirituale: “Can. 277 – §1. I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini.” Cuore indiviso. Fedeltà assoluta a Dio. Aderenza a Cristo

Mons. Charamsa, dotto esponente della Chiesa, non può non conoscere tale assunto fondamentale della sua vocazione: un presupposto che non ha solo tenore normativo, ma che affonda le sue profondissime e secolari radici nel magistero e nella tradizione della chiesa sino ad arrivare agli apostoli ed, in sintesi, a Cristo stesso ed al Suo vangelo.

Una norma della chiesa, sic et simpliciter? No, una “norma” – impropriamente detta – nata “con” la chiesa. Un aspetto assolutamente dirimente, questo, nella valutazione del caso. Nessuna differenza, in parole povere, fra il caso Charamsa e ciò che accadde con mons. Milingo. Molti, forse, lo hanno dimenticato. Arcivescovo, famoso esorcista, entrò improvvisamente in contrasto con la chiesa e con il celibato arrivando addirittura a sposarsi con una donna coreana nell’ambito di una cerimonia della setta del reverendo Moon, per poi ordinare sacerdoti quattro uomini sposati.

Addentrarsi nell’aspetto teologico – morale è compito arduo e assai complesso ma, francamente, e da un punto di vista meramente “scientifico”, appare singolare davvero che un personaggio del genere affermi che “non si possono aspettare altri 50 anni perché la chiesa modifichi la sua dottrina”. Che ne abbia studiata una diversa? Perché non v’è dubbio che, in tema, la chiesa conosca, da sempre, un unico ( e ci auguriamo) immutabile assunto: L’unione di uomo e donna, infatti, è l’unica possibile per la dottrina teologica e morale della Chiesa poiché in essa e solo in essa uomo e donna si rendono protagonisti della compartecipazione alla creazione divina per il tramite dell’apertura alla vita.

Nessun giudizio sul Charamsa uomo.

Ma un uomo, nelle sue scelte, non può prescindere da ciò che è che rappresenta: per se stesso, per coloro che frequenta e con i quali intrattiene relazioni. Che si sia semplicemente padre, marito, lavoratore subordinato o professionista; dirigente statale o manager d’impresa; sindacalista, politico, parlamentare, presidente del consiglio o della repubblica o, ancora, generale dell’esercito.
Ogni nostra scelta – operata in radicale e profonda controtendenza con tutto ciò che costituisce la nostra vita e le nostre relazioni – riverbera sugli altri. Siano essi solo un coniuge, un figlio, una famiglia, un collega di lavoro o di ufficio, una collettività, uno stato o, in questo caso, la Chiesa universale di Cristo.

Chiesa che – dovrebbe ricordare Charamsa – non è solo clero, chierici, ex sant’uffizio e quant’altro; chiesa che è, soprattutto, popolo di Dio. Popolo di ultimi, di indifesi, di piccoli. È il Signore stesso a dire: “Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.  Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!” (Matteo, 18, 6-7).

Tornano allora in mente le parole di Paolo, le uniche che possano spiegare tali “scandali”, tali “pietre d’inciampo”: negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche.