I profumi di Antonio

Più di quattro ore di processione non sono poche, neppure per chi è più avvezzo a giaculatorie e avemmarie, quindi è facile distrarsi, volare con la mente altrove.

È un fatto religioso, un rito, una pia devozione, ma è anche altro, pure per chi reatino non è e fanatico di santantò neppure.

Si parte da piazza san Francesco, la calca è folle. Fa ancora caldo, pure se non è come certi anni, che ti viene da svenire. I microfoni gracchiano l’ordine della sfilata ma il vocìo annulla ogni ordine impartito.

I camerlenghi (così li chiamavano una volta) cercano di incanalare le varie componenti: confraternite, bande, stendardi, fedeli, politici e autorità.

Dopo oltre mezzora il serpentone è avviato, ma fatica a sguisciare verso via Garibaldi: gli spettatori aumentano. L’odore delle candele accese e della cera fusa colata ai bordi delle strade surriscaldate esala il suo nardo inconfondibile e appiccicoso.

Le monache di santa Chiara sbirciano dalla chiesa aperta, sedute o appoggiate a bastoni e sedie, una saluta i bambini che sfilano accanto ai genitori.

Poi su via Garibaldi si cominciano a vedere i drappi rossi orlati di giallo-oro stesi alle finestre; le suore di santa Caterina si affacciano curiose e devote dalle loro case odorose di secoli.

Davanti a san Fabiano le monache fanno capolino dai lunghi corridoi, un trespolo con un vaso di fiori rossi è di omaggio al Santo e quasi limite fragile ma invalicabile di una soglia che è lecito passare solo in certe occasioni.
Curiosi, fedeli, indifferenti, stazionano sui marciapiedi, non sorpresi, attoniti e attenti.

Si svolta su via Nuova e la porta aperta, accogliente e ornata, della moschea della Pace, è custodita da alcuni fratelli musulmani che osservano con rispetto lo stuolo di gente, orante e silenziosa, chiacchierona e compiaciuta, con i segni della loro appartenenza.

È quasi l’ora di cena e dalle finestre aperte si scorgono lampadari e soffitti che sembrano spingere gli odori della cucina sulla via, mentre i drappi sembrano lingue che favoriscono lo scivolare via di profumi di brodi e di spezzatino in bianco.
Il Santo è quasi all’altezza di molte finestre, fermo sulla macchina, sguardo fisso ma non perso nel vuoto. Sembra ascoltare canti e preci, dolori e gioie, che escono da quelle finestre e da quelle porte spalancate; rivestito di ori e di fiori dall’odore inebriante, quasi annusa l’odore di cera, e di quelle cucine sature di vapori.

Superato il complesso di san Benedetto, un tappeto di fiori coloratissimo e odoroso fa crescere l’emozione; i canti si sentono meglio, dalle cantine e dai garage aperti esce profumo di chiuso, fresco, e dalle mura pregne di mosti vetusti una carezza di passato. I portatori della macchina “a riposo momentaneo” si rifoccillano.

La lunga teoria di gente orante sbuca su una lunghissima via Terenzio Varrone: si fa sera!

Il luccichìo delle luci domestiche ora è più evidente; la gente affacciata ai balconi è silente e attenta; alcune case sembrano riaperte per l’occasione da chi, bambino, vi si affacciava coi genitori o i nonni e ora vive altrove.

I politici e le autorità incedono ammucchiati e distratti, come al solito, e si dispongono su due file solo per non distruggere gli artistici disegni dai colori mozzafiato: sembrano in riunione permanente.

Il biscione svolta su via Cintia: la stanchezza si fa sentire. Giunti di fronte al duomo il Vescovo, vestito a festa, si unisce al corteo, dopo aver impartito la benedizione. Le campane di santa Maria suonano a distesa e pure, poco dopo, la solitaria campana comunale svegliata per l’occasione, dopo decenni di muto letargo. Si scende su via Roma, è ormai buio e sul ponte un fiume di gente osserva che il Vescovo cede la reliquia del Santo al parroco del Borgo; ci si dirige verso porta Romana, la si aggira e ci si introduce verso via Matteotti. Lo spettacolo che si presenta in via borgo sant’Antonio è surreale; ormai gli odori sono mescolati in un cocktail irresistibile: le raffigurazioni di papa Giovanni e di santa Chiara sono tra le più belle. La lunga sosta del Santo di fronte al monumento ai caduti si conclude con fuochi artificiali variopinti.

Si è sulla via del ritorno: si scavalla il ponte, si svolta verso via san Francesco, si punta sulla chiesa.

La libera uscita del Santo dei miracoli anche per quest’anno si è conclusa. La macchina è posta di schiena al cancello della scuola: la statua severa ma ammiccante, dai tratti gentili, ma a momenti quasi burberi, dà un ultimo sguardo e sembra sniffare ancora gli odori che la custodiranno un altro anno.

Il Vescovo sulla sommità della scalinata parla ad una folla sconfinata e composta; imparte la benedizione e rientra in chiesa, mentre l’amato “patrono” di schiena viene riposto tra applausi e lacrime, ebbro di odori, quasi arrossato in viso.

Odori di vita vissuta, di dolori, di sconfitte, di male, di bene, di vittorie, di gioie. Odori di cibo, di sudore, di fiori, di case.

Case che hanno fatto entrare i profumi del Santo e che hanno dato profumi a quella statua apparentemente inerme, ma quasi viva.

Perché ci va tanta gente? Per fede, per curiosità, per fanatismo, per tradizione? Anche. Sì, ma pure per gli odori, per quei profumi inconfondibili di vita passata, presente e… futura!