I buoi scappati di Google

Non convince la decisione di modificare gli algoritmi contro i siti pirata

Google sta vivendo un momento di crisi di identità. Nonostante che gli affari del più potente motore di ricerca del mondo non siano mai stati così floridi, la strategia di comunicazione del colosso inventato da Sergey Brin e Larry Page comincia a dare visibili segni di stanchezza (e anche di confusione). Con un clamoroso autogol la scorsa settimana i vertici di “Super G” (Google è chiamata così dagli addetti ai lavori) hanno detto alla stampa di aver modificato gli algoritmi in modo da penalizzare i siti pirata. In parole povere, se un utente cerca il titolo di un film (o di un videogioco o di un software), i risultati della ricerca che indicano dove scaricarlo illegalmente dovrebbero precipitare in fondo alla classifica, sulle pagine più lontane dalle prime letture frettolose. In ogni caso i contenuti “pirata” saranno sempre accompagnati da un avviso che invita ad un download “legale” sui siti specializzati e autorizzati. Si tratta di un grossolano errore di comunicazione: per dire di voler fare il bene, in realtà pubblicizzano il male e dicono anche ai più distratti dove andare a cercare i contenuti non legali. Nello stesso tempo ribadiscono, ancora una volta, di essere complici, per quanto involontari, di contenuti distribuiti nella rete senza la necessaria autorizzazione dei proprietari.

Un antico proverbio recita: si ostinano a chiudere la stalla troppo tardi. Le reazioni delle principali major discografiche e cinematografiche sono state tiepide, per non dire glaciali. “Il cambio di algoritmo non ha un impatto dimostrabile sui siti con grandi quantità di pirateria”, hanno detto i responsabili della Recording Industry Association of America e della Motion Picture Association of America. “Super G” è veramente in affanno e non riesce a risalire la china della simpatia con il mondo del cinema e della musica. Un incontro organizzato a Roma nella sede dell’Anica per convincerli del possibile business che deriverebbe dalla distribuzione di video su YouTube non ha portato gli esiti sperati. Anzi ha avuto un risultato paradossale: dopo solo qualche mese la Rai ha deciso infatti di cancellare tutti i propri canali che erano stati aperti su YouTube. Nel rapporto “How Google Fights Piracy” (come Google combatte la pirateria) hanno detto di aver già distribuito un miliardo di dollari ai detentori di copyright su YouTube. I produttori alzano le spalle e dicono di aver perso e di continuare a perdere molto di più (decine di miliardi) con il fenomeno della pirateria.

Recentemente ci si è messo anche il Governo Merkel. Devono rispettare le leggi nazionali su fisco e privacy, hanno strillato i tedeschi. È il sintomo di un malumore crescente contro lo strapotere monopolistico di “Super G”. Alcuni giorni fa, a Milano, il filosofo francese Fabrice Hadjadj, direttore dell’istituto europeo degli studi antropologici di Friburgo, è stato ancora più categorico. “Google e l’Isis si somigliano: odiano l’uomo”, ha detto. “I gender studies, come i fanatici, smaterializzano la natura: i primi con il computer, gli altri con le armi. L’islamismo è smaterializzante quanto la tecnoscienza. Ignora la consistenza della materia, della cultura, della storia e si rimette a un Dio che schiaccia la carne umana”, ha spiegato il filosofo durante un convegno su “Crisi e cultura”. Anche senza arrivare ai paradossi delle argomentazioni di Hadjadj, rimane da constatare amaramente l’uso scaltro ed efficiente che i terroristi in carne e ossa dell’Isis hanno saputo fare dei canali di YouTube per diffondere in tutto il mondo le loro immagini dell’orrore. Senza nessun controllo, è bene ribadirlo, da parte dei vertici di Google.