Guardando la città

È una città malinconica e misteriosa. La malinconia è la prima cosa che conoscono venendo da fuori, gli altri, i non nativi. Ma è una malinconia toccata da qualcosa di diverso, difficile a nominare; sembra provenire dalle viuzze, dalle chiese, dai vicoli silenziosi, dalle altane di certi palazzi cinquecenteschi, dai cortili gelosi; da tanta bellezza segreta, dalla castità di certe piazzette.

A volte sembra essere trasportata dal fiume che l’attraversa, dalle sue acque inquiete e gelide, dal loro correre estraneo alle sue murature impassibili, superbe ed esatte.

Ma poi sembra arrivare dalle nuvole, dalle improvvise correnti d’aria, che fanno di un cielo un’escogitazione interiore. Una malinconia mutevole, irrequieta, di una qualità quasi astratta, poggiata sull’ipotesi, fragile, di una felicità inattaccabile.

Ma una mano ignorante non ha esitato ad intervenire pesantemente disorientando l’antica bellezza, mortificandone la storia; una mano che non conosce la grazia di certe forme che hanno trovato da sé equilibrio, precisione, o quel valore estetico che lo sguardo riconosce nel piacere, nello stordimento.

Qualcosa di mortuario ispira quella mano, se ha concepito ornamento voluminose, distese forme, di quella materia che non teme il gelo né arsura, che è l’impenetrabile marmo; ma le chiamano fioriere, poste ai lati delle vie, come se ai fiori toccasse abbellire il transito verso il nulla cui alludono. (Via Roma).

Ma prima ancora è riuscita con la sua dinamica rovinosa a disturbare un ordine, o la bellezza silenziosa, commovente, di uno spazio quasi spoglio, di una piazzetta intensa di metafisiche atmosfere (S. Rufo). E poi dopo, ancora marmo, nel suo imprudente, indistruttibile biancore, ovunque, anche là dove in tempo piante e giardini rinfrescavano pause, proponevano riconciliazioni. È la sua fedeltà il segno più inquietante.

Il rischio è abituarsi a una visione che non ci costringe a riflettere, godere infine del brutto trovandolo più attraente, più eccitante del bello. Il risultato è la perdita del ruolo dell’arte, e anestetizzato il nostro gusto per il bello; da qui l’ascesa delle aberrazioni, del Kitsch, dello scioccante, dell’effimero.

È come se il nostro cervello si fosse assuefatto al concetto di bellezza e andasse alla ricerca di un modo nuovo di concepire ed esperire il bello.

Bisogna fermare quella mano e restituire alla città la sua misteriosa malinconia, restituire all’arte quel ruolo fondamentale nella trasmissione di conoscenze.

Non è vero che è importante fare, è importante fare bene.

Lasciare le cose come sono, nella loro naturale perfezione, è già un atto creativo.

A. M.