Guai ai vinti

Cosa succede quando il lavoro smette di essere soggetto politico?

La lotta per il lavoro ed i suoi diritti, da qualche anno a questa parte, è stata accomunata ad altre contraddizioni che attraversano la nostra società e ridotta, più o meno, sullo stesso livello: la grande contraddizione ambientale, per esempio, che è considerata come decisiva anche nella critica al capitalismo contemporaneo; la questione di genere che è una contraddizione reale, emersa con grande forza negli ultimi decenni; e la contraddizione dei diritti civili in base alla quale, essendoci stato un processo di individualizzazione della società, si ritiene prioritario ripartire dal mondo dei diritti individuali che vengono negati e messi in crisi.

Ma in questo modo la contraddizione del lavoro è scomparsa. Non è una contraddizione che può essere appiattita, e appena perde centralità, semplicemente viene meno.

Ora, a parte Capitale e Lavoro, tutte le altre contraddizioni sono riassorbibili dentro al sistema complessivo. Può esistere, per esempio, un capitalismo che intelligentemente si fa carico della questione ambientale. Non è una questione di rottura al suo interno, insanabile, come a volte viene declinata. La stessa cosa vale per i diritti civili delle minoranze o delle donne.

Diverso è il discorso quando invece si parla di lavoro poiché, per dirla con Marx, questo è un elemento della soggettività moderna, ma è un elemento incompatibile, in ultima istanza, con la struttura del capitale.

Ponendo il lavoro direttamente in rapporto con il capitale, quanto più cresce la soggettività nel lavoro, tanto più entra in difficoltà l’oggettività del capitalismo. Tutto questo si misura nel rapporto salario-profitto: quanto più aumenta il salario a danno del profitto, tanto più il profitto capitalistico entra direttamente in crisi.

L’operazione novecentesca, molto abile nel tentativo di includere il lavoro stesso nel capitale, è stata quella di evitare il confronto diretto tra lavoro e capitale, di evitare sempre quella conflittualità diretta, che teoricamente dovrebbe mettere in crisi la struttura del capitale. Ragioniamo in “teoria” perché in mezzo c’è qualche cosa che non nasce automaticamente, spontaneamente. Perché la soggettività-lavoro non è una soggettività che già c’è, è una soggettività che va costruita, che va organizzata, che va fatta crescere, motivata. E quindi in questo rapporto diretto lavoro-capitale c’è un elemento che deve intervenire, e che è intervenuto sempre da parte capitalistica e molto meno da parte operaia, ed è la politica. Il capitale ha sempre fatto in modo di far intervenire l’elemento politico al fine di governare il rapporto diretto tra capitale e lavoro (ovviamente a suo vantaggio).

E dagli anni ‘80 in poi, è riuscito in una operazione sicuramente più complessa, in concomitanza con la scomparsa del blocco socialista e con il conseguente quanto inevitabile indebolimento del movimento operaio, poiché si è riusciti a far venir meno la contraddizione del lavoro.

Potremmo arrivare a dire di aver assistito ad una lotta di classe fatta soltanto dall’altra parte, al contrario. Il capitalismo si è trasformato, si è “migliorato”, si è fatto tecnica fin nel midollo, al fine di rendere sempre meno strategica la presenza del lavoro dentro la produzione stessa e con vari tentativi che tendevano, ad esempio, a smontare quel processo lavorativo che teneva ancora insieme tra loro i singoli operai.

Ci si è accorti che la catena di montaggio era un elemento politico, perché teneva insieme, faceva classe: gli operai, l’uno dietro l’altro, formavano una collettività. Smontare la catena di montaggio e trovare altre forme per il processo lavorativo che scomponevano la filiera è stata un’operazione geniale perché ha distrutto proprio il collettivo, “l’operaio collettivo”.

Sono tutti processi reali che sono stati funzionali alla trasformazione capitalistica e molto meno funzionali ad un processo di crescita antagonistica della classe operaia; il problema è sempre quello, che il lavoro ha una soggettività potenziale che, per passare all’atto, ha bisogno di una soggettività politica e di una forma di organizzazione politica; minaccia il capitale dall’interno, perché è una parte interna ad esso e quindi unico fattore veramente capace di porre il capitale di fronte alla sua contraddizione mortale, ma solo nel momento in cui è capace di organizzarsi e di trovare le forme di una sua attualità politica. Ecco perché così tanto denaro è stato investito negli ultimi trenta anni al fine di disintegrare il movimento operaio e le sue formazioni satellite.

La stessa concentrazione operaia, che in passato aveva favorito forme di autonoma organizzazione, la socializzazione e la cooperazione, era divenuta un pericolo latente per i nascenti rapporti di forza che avrebbero poi definito la nostra società, e non a caso si è passati a smontare le grandi concentrazioni operaie e a diffondere la produzione a diversi livelli aziendali.

Oggi siamo di fronte ad una classe operaia non concentrata, ma individualizzata e diffusa nella catena delle medie e piccole industrie. Essere operaio vuol dire essere insieme ad altri e non può nascere un individualismo operaio poiché segnerebbe l’inevitabile sconfitta. Ecco allora che tutta la riforma dei contratti negli ultimi anni è consistita proprio in questo, nel soddisfare l’ideale del capitale ad avere un rapporto diretto con il singolo operaio, invece che con la collettività organizzata. Questo è uno strumento di indebolimento delle difese dei lavoratori e di smantellamento di un intero movimento, dell’ultima grande forma della soggettività politica.