La grandeur dei monumenti funebri

L’esempio di Napoli, la città della “livella”, durante il periodo angioino.

“Ogni anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll’adda fa chesta crianza; ognuno adda tenè chistu penziero. Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza, anch’io ci vado, e con dei fiori adorno il loculo marmoreo ‘e zì Vinceza”. L’incipit è quello della famosa poesia, “A livella”, scritta dal principe Antonio de Curtis ovvero Totò; il titolo sta a significare la funzione “livellatrice” che ha la morte verso tutti senza distinzione di stato sociale, ma la poesia ci parla anche dell’usanza di far visita ai defunti presso i cimiteri, luoghi deputati ad accogliere i resti mortali delle persone. Eppure, nel lontano Medioevo i cimiteri, come li intendiamo oggi, non esistevano. Spesso erano le chiese o i monasteri, o ancora le pievi ad accogliere i defunti e questo aveva un doppio vantaggio: sul cosiddetto libro dei morti i sacerdoti annotavano tutti i dati del defunto e così se ne conservava in qualche modo la memoria; il secondo vantaggio era ancora più importante perché ne veniva assicurata la preghiera quotidiana per la salvezza dell’anima.

Altro è il caso dei sepolcri come monumenti veri e propri che servivano a glorificare le gesta del defunto. Per realizzare queste opere, spesso magnifici esempi dell’arte plastica, venivano chiamati scultori di fama e venivano impiegate grandi risorse economiche.

Proprio la città di Napoli, la città della “livella”, durante il periodo angioino (1266-1414) fu una vera e propria capitale del Regno anche in fatto di monumenti funebri.

Le chiese francescane e domenicane, si popolarono infatti di splendide opere eseguite da celebri maestri come il senese Tino di Camaino, i fiorentini Pacio e Giovanni Bertini oppure il “milanese” Antonio Baboccio da Piperno. Veri esempi di alta statuaria che attraverso un dettagliato e complesso programma iconografico, celebravano la vita e la memoria del defunto che apparteneva generalmente ad un rango elevato e legato alla corte reale. Attraverso questi monumenti funebri, al di là dello stile artistico, possiamo “leggere” le aspirazioni, le peculiarità, le passioni e le abilità di questi personaggi, la loro fedeltà al re ed ai suoi familiari e inoltre le sculture sono indicative anche per conoscere la moda e i costumi dell’epoca.

Nei centotrenta metri della navata interna della famosa chiesa di Santa Chiara, sono ben dieci le cappelle per ogni lato, le quali ospitano monumenti funebri; un vero e proprio atlante o albero genealogico della famiglie angioine e dei loro dignitari.

A partire da quello che è il monumento più importante e grandioso di tutto il Trecento: ovvero il sepolcro del sovrano Roberto d’Angiò, il re saggio che portò a Napoli artisti e poeti come Giotto e Petrarca. Oggi il monumento non è più visibile nella sua forma originaria a causa del devastante bombardamento del 1943. Realizzato nel 1343 ed eretto dietro l’altare maggiore nel presbiterio della chiesa, fu concepito di dimensioni tali che doveva essere visibile fin dall’ingresso. La parte più significativa è rappresentata dall’arca centrale dove si celebra la dinastia familiare: sulla fronte del sarcofago, sono presenti sette nicchie cuspidate decorate con stemmi angioini che contengono immagini del sovrano seduto su un faldistorio e ai lati i suoi familiari, la prima moglie Violante d’Aragona, il figlio Carlo di Calabria e la moglie di questi Maria di Valois. Alla sua destra la seconda moglie Sancha di Maiorca, la regina Giovanna e Ludovico, il secondogenito di Roberto morto nel 1310. Nella parte superiore abbiamo invece il testamento spirituale del re: Roberto d’Angio è ritratto giacente con gli occhi socchiusi, scalzo e con gli abiti da francescano, vegliato dalla sette arti liberali del Trivio (Grammatica, Retorica e Dialettica) e del Quadrivio (Geometria, Astronomia, Musica e Aritmetica).

A Napoli il re è il modello della vita cortese e cavalleresca, ma è anche il prototipo esemplare della vita religiosa, della pietà e della devozione: nella Capitale egli vive, regna, legifera, prega, si sposa e muore, viene incoronato e viene sepolto, ma soprattutto viene eternato alla gloria dei cieli.