Goya, lampi di giustizia e libertà

È il risultato dell’incontro con il popolo, volto autentico della sua Spagna

Al pari di Murillo e di Picasso, Francisco Goya è stato uno degli artisti più importanti e rappresentativi della Spagna. Nato nel 1746 in un piccolo centro aragonese vicino a Saragoza, vissuto a cavallo di due secoli, fu un uomo dallo spirito inquieto e dall’esistenza tempestosa, ma al tempo stesso fu animato da un sentimento ed un amore profondissimo verso la sua terra al punto da identificarsi con essa. Fu attento e disincantato narratore della società iberica, quella degli ultimi fasti di un’aristocrazia decadente e pigra, e quella drammatica delle miserie del popolo. Goya fu il pittore della realtà, ma non una realtà ripetuta sulla tela in maniera meccanica e pedissequa, bensì mediata attraverso l’istinto e sublimata attraverso l’espressività del disegno e del colore. Egli fu anche un ecclettico sperimentatore delle varie tecniche artistiche, passando dalla pittura all’acquaforte agli arazzi, utilizzando con estrema facilità la gamma cromatica, dal colore più acceso al monocromo più cupo. Queste ricerche rispondevano ad una precisa esigenza: quella di trovare la massima libertà espressiva dell’arte.

Con la serie dei “Capricci” realizzate nel 1799, stampe d’autore realizzate con la tecnica dell’acquaforte, Goya vuole denunciare il malessere della società: così sotto le gelide tonalità del bianco e lo spessore tenebroso del nero prende vita un mondo popolato da figure umane isolate, notturni animali volanti e mostruosi esseri. Lo scopo di queste stampe, autentici brani di poesia alta e terrificante, consisteva nel denunciare la solitudine umana ed esistenziale dell’umanità. Eppure anni prima, proprio lui era stato uno dei principali attori di quella società; attraverso le sue tele ne aveva descritto i costumi e le mode, ne è una riprova il ritratto del piccolo “Don Manuel Osorio de Zuniga” del 1788 (New York, Metropolitan Museum); dove si nota il tripudio di colori ed il vestino rosso del bambino è come un lampo di fuoco all’interno di una composizione tecnicamente perfetta.

Ma cosa passa tra questi due momenti apparentamenti così diversi? Tra il periodo in cui ritrae la vita di corte e quello in cui emerge la sfiducia nella società, c’è il periodo dell’occupazione napoleonica, ma soprattutto c’è il popolo che per Francisco Goya è il volto autentico e genuino della Spagna. Il momento spartiacque nella sua carriera d’artista è rappresentato da: “Le fucilazioni del 3 maggio” (Museo del Prado, Madrid), un autentico capolavoro di pathos, realizzato nel 1814. L’opera rappresenta l’esecuzione dei ribelli spagnoli da parte delle truppe napoleoniche, all’indomani dell’insurrezione del 2 maggio 1808. È una scena notturna, drammatica e tumultuosa: da un lato i soldati, sagome legnose senza volto, sono come ombre incombenti nel buio, di fronte ad una brevissima distanza ci sono i ribelli, hanno volti caratterizzati da espressioni di dolore e sfida, e poi c’è il sovrapporsi convulso e straziato della folla che assiste. Al centro della composizione si staglia un personaggio che dilata le braccia, come se fosse in croce, come se volesse catturare quel piccolo barlume di luce che c’è a squarciare le tenebre; è il gesto estremo del condannato che non sfugge al suo destino. Goya in questa tela porta alle estreme conseguenze la sintesi tra realtà e simbolismo: perché se storico è il contenuto, il condannato è la rappresentazione del desidero e delle aspirazioni di libertà, giustizia e democrazia insite nell’uomo e che nemmeno la morte può cancellare.