Google, ficcanaso globale

Nuovi guai (violazione privacy) per il servizio di posta elettronica Gmail

A quanto pare a Mountain View i guai con la privacy non sono mai abbastanza e, così, quando un’estate potrebbe scorrere un po’ più tranquilla, gli uomini di Google finiscono, con un mezzo autogol, al centro di una polemica sul loro servizio di posta elettronica, Gmail, reo (?) di scansionare automaticamente le e-mail dei propri utenti.

Se gli avvocati di Google avessero dovuto scegliere il momento peggiore per instillare il dubbio che Gmail ficcanasi nella corrispondenza di tutti i suoi utenti, probabilmente non avrebbero potuto fare di meglio. Nel bel mezzo di un procedimento avviato dai garanti europei per la Privacy per verificare la congruenza delle policy adottate da Mountain View, a poche settimane dalla scadenza dell’ultimatum, la frase oggetto della disputa, estrapolata da un documento legale presentato da BigG nell’ambito di una causa collettiva per presunta violazione di privacy di Gmail, lascerà certamente il segno anche nella procedura aperta nel Vecchio Continente.

A montare la notizia ci ha pensato Consumer Watchdog, un’associazione americana per la tutela del consumatore, estrapolando una frase in un documento, prodotto da Google (secondo gli attivisti), nell’ambito di una class action mossagli contro presunte pratiche di data-mining. Secondo i denuncianti, Gmail effettuerebbe tre pratiche automatizzate in violazione di tutta la corrispondenza elettronica dei propri utenti: la scansione automatica, l’applicazione dei filtri antispam e l’invio di pubblicità personalizzata. I legali del big della Rete avrebbero risposto che tali pratiche sarebbero accettate dagli utenti in cambio del servizio di posta e che, quindi, chi usa il servizio acconsente implicitamente “al trattamento automatizzato delle proprie e-mail”. Per spiegare il meccanismo del consenso gli avvocati avrebbero usato un esempio tratto da una vecchia causa, il caso “Smith contro Maryland” del 1979, nella quale il giudice aveva stabilito che chi manda una missiva a un collega è consapevole che potrà essere aperta e letta anche da un collaboratore del destinatario. Ecco chiarito: Gmail sarebbe una specie di “segretario” che riceve la posta dal mittente, la legge e poi la gira al destinatario.

Neanche a dirlo, la Consumer Watchdog si getta al collo di Google: “Google usa un’analogia sbagliata – afferma John M. Simpson -, mandare un’email è come spedire una lettera all’ufficio delle poste e mi aspetto che l’ufficio la recapiti in base all’indirizzo sulla busta e non che il corriere la apra e la legga. Allo stesso modo, quando mando un’email mi aspetto che venga recapitata al destinatario indicato in base all’indirizzo email. Perché mai dovrei immaginarmi che venga intercettata da Google e letta?”. La conclusione di Consumer Watchdog è chiara, chi vuole tutelare la propria privacy deve abbandonare i servizi di BigG.

Da Mountain View, però, non ci stanno a finire sul patibolo e la replica è pronta: “La citazione in questione – spiegano – erroneamente attribuita a Google, viene da una sentenza della Corte Suprema Americana del 1979, anno in cui Google era ancora ben lungi dall’essere creata. Usarla per suggerire che Google non si preoccupi della privacy è fuorviante. Prendiamo molto seriamente la privacy e la sicurezza dei nostri utenti; le notizie apparse in questi giorni che dicono il contrario sono semplicemente false”. Rassicurati i detentori dei 425milioni di mailbox Gmail, per Google la tempesta, però, non è passata: settembre è alle porte ed entro la fine del mese i Garanti Europei abbatteranno la loro scure su BigG se non si adeguerà alle condizioni dell’ultimatum.