Il discorso di fine anno di Giorgio Napolitano

C’è la “questione sociale” al centro del discorso di fine anno del presidente della Repubblica, ultimo del settennato. Espressione antica, “questione sociale”, che però attraversa oggi tutta l’Europa e questo passaggio di crisi. C’è un’emergenza disoccupazione, un’emergenza marginalizzazione, un’emergenza famiglie, giovani, donne, Mezzogiorno. Il presidente le ricorda, attraverso i dati, ma anche e soprattutto concrete storie di persone e di famiglie.

Assumere francamente la “questione sociale” – assumerla come impegno politico e soprattutto morale – significa però anche affermarne l’impegno per affrontarla e superarla. Perché il prossimo anno sarà ancora certamente difficile, ma dalla crisi si esce proprio ritrovando, nel tessuto sociale, le risorse necessarie al cambiamento, all’investimento, alla giustizia, alla coesione.

Se la “questione sociale” attraversa tutta Europa, una delle parole-chiave del discorso e della prospettiva di Giorgio Napolitano, ci sono delle peculiarità italiane. E sono legate ai nodi sistemici non risolti, che non sono solo di tipo economico. Evocano una “questione politica” e una “questione istituzionale”, che ha specifici tratti nazionali. Forse è proprio qui la ragione del nostro “differenziale” – la parola nostrana che traduce l’abusato “spread”: sotto questi profili da troppo tempo si attende non tanto una soluzione, ma almeno interventi adeguati.

Sulla politica il capo dello Stato consegna una fulminante citazione di Benedetto Croce: “Senza politica, nessun proposito, per nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione”. Sono parole che riportano al clima del secondo dopoguerra e, dunque, al fervore di ricostruzione: ci sono le contrapposizioni, ma la politica serve proprio, da un lato, a garantire che queste non consumino il sistema, dall’altro, che si prendano delle decisioni. E questo è oggi uno dei nostri problemi di fondo. In concreto spiega la complessa questione del “governo tecnico” e mette, comunque sia, tutti i protagonisti, vecchi e nuovi, della campagna elettorale in corso di fronte alle proprie responsabilità. Ma la questione politica – a proposito della quale non manca di ricordare tutti gli episodi di malaffare che hanno riempito le cronache di questi mesi – richiama una più ampia questione istituzionale.

Anche qui il suo tono è chiaro e preoccupato. Ricorda le responsabilità trasversali per la mancata approvazione di una qualsiasi riforma elettorale e più in generale per la trasversale incapacità di affrontare quei nodi di riassetto e di efficienza delle istituzioni che continuano a penalizzarci gravemente.

Serve, per ritornare a un’altra espressione antica, tensione “civile”. Questo significa recuperare elementi tradizionali, senso di appartenenza, solidarietà, identità, e così qualità, preparazione, opportunità. Una sintesi difficile, che richiede innanzitutto “qualità morale”. È la strada stretta per cambiare e migliorare le cose e, dunque, ritrovare iniziativa e fiducia.