Franco Maria Malfatti e l’ingresso della Gran Betragna in Europa. L’opera di un grande sabino da ricordare il giorno di Brexit

È certo che tutto il mondo ed in particolare quello economico e finanziario, ma soprattutto quello politico, resteranno con il fiato sospeso fino a quando non si conosceranno gli esiti del referendum sulla permanenza della Gran Bretagna in Europa o sulla sua malaugurata uscita dall’UE.

Per quel che riguarda l’ingresso dell’Ighilterra in Europa 44 anni fa sembra doveroso ricordare l’opera storica di un grande sabino, l’onorevole Franco Maria Malfatti che a quel disegno dell’allargamento dell’Europa a Dieci lavorò per due anni interi e vi profuse le sue energie migliori fino a quando, in qualità di Presidente della Commissione Economica Europea, il giorno 22 gennaio 1972, presiedette a Bruxelles nel Castello di Egmont, la cerimonia della firma di adesione ai Trattati di Roma dei rappresentati dei paesi dell’EFTA che così fecero ingresso in quella nuova istituzione pensata e voluta dagli statisti democristiani De Gasperi, Adenauer, Schuman perché gi europei potessero vivere in pace e non ricadere in altre guerre combattute fra di loro come quella disastrosa che si era appena conclusa.

In questa occasione di Brexit mi sembra doveroso ricordare la leaderschip dell’on. Malfatti, più tardi Ministro degli Esteri del governo Cossiga, morto il 10 dicembre 1991, che all’epoca della firma aveva soltanto 45 anni e pubblicare le parti salienti dei capitoli del mio libro Malfatti, l’on. Bambino La Memoria Il Rimpianto L’Oblio pubblicato dalla Fondazione Varrone.

L’ingresso della Gran Bretaga i Europa

Nella conferenza dell’Aia del 1969 convocata da Pompidou, i Paesi europei avevano deciso di portare avanti un comune programma fiscale e monetario e di allargare la Comunità ad altri paesi. Ma la risposta da dare ai provvedimenti restrittivi in economia che sarebbero stati assunti dagli Stati Uniti, era difficile da concertare, la situazione drammatica, le divergenze e le divisioni, come al solito, paralizzanti, perché più che a salvaguardare gli interessi comunitari, erano tese a preservare quelli delle singole nazioni e delle più forti. La questione dell’ingresso della Gran Bretagna era, come aveva deciso Malfatti, affare da chiudersi lestamente. Ed è così che si concluse. Il giorno 22 gennaio 1972, i rappresentanti dei Paesi dell’Efta giunsero a Bruxelles per partecipare alla cerimonia della firma. […] Sottoscrissero i Trattati di Roma, i Capi di Stato e di Governo della Danimarca, dell’Irlanda, della Norvegia e della Gran Bretagna. Al Palazzo d’Egmont il presidente Malfatti pronunciò un discorso nel quale si felicitò dell’adesione. Ad ascoltarlo, in prima fila, c’erano i leader dei governi dei Dieci Stati membri della Comunità di allora. Per l’Italia il presidente del consiglio Emilio Colombo e il ministro degli esteri Aldo Moro. […]
Malfatti parlò nel salone del Castello di Egmont, sede che non era stata scelta a caso. […] Il Palazzo era appartenuto ad un grande condottiero belga, Lamorale d’Agamonte, il quale, insieme con il conte Guglielmo d’Orange e il Conte di Horne, manifestò contro l’introduzione dell’Inquisizione nei Paesi Bassi e si pose in atteggiamento critico contro il re di Spagna… […] Sotto questi auspici ed aneliti di libertà negata e rivendicata, ebbe inizio l’incontro della firma dei Trattati. Essa suggellava la riuscita della presidenza Malfatti, che aveva concluso la lunga e difficile trattativa dell’ingresso dei quattro Paesi del nord Europa nella Comunità.

Il tetrapak sul petto di Heath

Quel giorno Malfatti […] si confermò valido statista per aver lavorato all’allargamento dell’Europa contro i veti francesi ed averli superati anche grazie ad una modifica di posizione di Pompidou su cui molto aveva insisto per ricavarne il convincimento che doveva sbloccare l’impasse. Nella loro politica estera, i cugini d’oltralpe erano legati ancora alla posizione del generale de Gaulle, ostico ad ogni processo che favorisse l’Inghilterra, e a quella, più insistita, contro gli Usa, che temevano seriamente di perdere la loro leadership sui mercati mondiali.
Un incidente rischiò di compromettere la cerimonia. Mentre le delegazioni sfilavano all’ingresso di Egmont innanzi ad una siepe di fotografi e di cameraman, da dietro quel gruppo di giornalisti si fece avanti una donna in blu che teneva in mano il tetrapak del latte. Era pieno d’inchiostro. La signora lo lanciò mentre passava la rappresentanza britannica, colpendo al petto Heath, il primo ministro della Regina Elisabetta, che ne fu inondato, inzuppato e colorato di nero.
Non si trattò di un attentato come s’era temuto in un primo momento, ma se fosse stato, per la distrazione della polizia belga, quella donna in blu avrebbe causato una strage. Fu giocoforza attendere che Heath si cambiasse. […] A renderlo impresetabile era stata tale Marie Luise Kwiatkowski, la quale, mentre scagliava la “bomba”, aveva anche gridato “Maledetto! Maledetto!”. E il motivo? Tutto si scoprì dopo, perché sembra che il governo inglese avesse deliberato l’atterramento del quartiere di Covents Garden per costruirci sopra un mercato moderno e quindi cancellare anche quel famoso luogo di giocolieri e teatranti ove era stato ambientato, nel 1964, My fair lady, un film di enorme successo con Rex Harrison e Audrey Hepburn. Raccontava la favola di una rozza fioraia che si trasformava in una gran signora. Alla fine Audrey sposerà il suo Pigmalione, l’uomo che aveva pilotata la sua metamorfosi, e non c’era ragazza, allora, che non vi si immedesimasse, come era già avvenuto per Colazione da Tiffany.

Il discorso di Malfatti innanzi ai Grandi d’Europa

Tornata la calma e ripristinato l’ordine, ebbe inizio la cerimonia della firma.
«Eccellenze, Signore e Signori, – cominciò a dire un Malfatti che, al principio del suo discorso pronunciato in lingua italiana, apparve teso, ma non nervoso, cosciente del fatto che quell’evento di cui era protagonista sarebbe stato ricordato nei libri di storia. Il testo era stato preparato, vagliato, vivisezionato ed approvato in più di una riunione del suo staff.
«Più di quaranta anni fa, Winston Churchill paragonava l’idea dell’unità europea ad una scintilla che si leva da un focolare umano che vola in alto. Molte miriadi di scintille si spengono, ma talvolta ne basta una sola per far divampare una grande fiamma per illuminare il mondo.
Noi della Comunità a sei siamo fieri di aver reso possibile l’attuale, storico avvenimento, avendo trasformato la scintilla in una fiamma. Spetta ora alla nuova Comunità a dieci di trasformarla nella grande fiamma dell’Europa Unita.
Con la firma degli strumenti di adesione si compie oggi un atto politico. Siamo perciò consapevoli che le responsabilità che gravano sulle istituzioni comunitarie, sui governanti e sui popoli dei dieci paesi della nuova comunità, sono pari alle immense speranze che suscita l’idea della Comunità europea. Come tutte le grandi idee della storia, l’idea dell’Europa ha assunto nel tempo, ragioni e motivazioni diverse. Nell’immediato dopoguerra essa è scaturita soprattutto dall’angosciosa riflessione di due guerre civili europee che hanno così crudelmente marcato il recente passato della nostra storia. Oggi l’idea dell’Unità Europea s’impone come risposta alle inquietudini del presente, come l’unica, valida strada per dissipare le incertezze del futuro e realizzarne le speranze con l’opportunità di contribuire compiutamente, da protagonisti, alla costruzione di un mondo migliore.
Non sono soltanto il ritmo incalzante del progresso scientifico e tecnologico, la riconosciuta necessità di ampie dimensioni continentali per un rapido ed armonioso sviluppo economico e sociale, l’obiettivo di una migliore qualità della vita a spingerci sulla via dell’unificazione europea. Siamo spinti anche dalla necessità di ricostituire integralmente su basi più ampie, la rammentata sovranità dei popoli europei, impedendo la decadenza di questo nobile continente che pure è stato il focolare della moderna civiltà».
«La nostra non è, né può essere soltanto una Costituzione mercantile, – riprese a dire Malfatti nella sede di Palazzo d’Agamonte – perché ciò che noi abbiamo costruito tanto laboriosamente con la Comunità a sei, non potrà dare le risposte adeguate ai complessi problemi del nostro tempo, né garantire pienamente la nostra Comunità se noi non opereremo con tutte le nostre forze e con una costante volontà per la integrazione economica e per la unificazione politica dei nostri Paesi.
Le difficoltà che incontreremo sono certe, molte e grandi, ma le difficoltà che incontreremmo se non avanzassimo, sarebbero maggiori e più gravi. Uniti noi avremo la possibilità di scrivere una nuova pagina di storia, di essere un fattore importante di libertà, di sicurezza, di pace, di progresso nel mondo. Divisi noi potremo essere spettatori dello sviluppo della storia. Dobbiamo essere realisti, è vero, ma non per frenare la nostra immaginazione. Dobbiamo, è vero, essere pragmatici, ma non per limitare la nostra impazienza. Dobbiamo, è vero, essere prudenti, ma non per indebolire il nostro coraggio.
La nostra costruzione è rivoluzionaria e originale. Rivoluzionaria innanzi alle precedenti esperienze storiche, perché il processo unitario che abbiamo intrapreso, è un’opera collettiva di tutti gli Stati membri legati nel quadro comunitario da piena parità di diritti e di doveri. Originale perché essa appunto si afferma in un sistema istituzionale che non ha equivalente nei modelli tradizionali. Questo sistema si esprime attraverso un Parlamento europeo composto dai rappresentanti dei popoli della Comunità al rafforzamento dei poteri democratici del quale l’opera di tutti i paesi membri, dei nuovi paesi della nuova comunità appare indispensabile, un Consiglio composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri e dotato di un potere di decisione, un organo indipendente, la Commissione, con i suoi poteri reali chiamata a proporre e a difendere le norme comunitarie e a partecipare alla formazione degli atti del Consiglio, una Corte di Giustizia che assicura il rispetto del diritto comunitario. Queste sono le caratteristiche essenziali della nostra costruzione che dobbiamo salvaguardare e potenziare in un quadro democratico, perché da esse deriva la natura stessa della Comunità che nasce.
La Comunità che nasce non è, né vuole essere un nuovo blocco, ma una vasta comunità di Stati e di Popoli liberi e pacifici ciascuno dei quali porta alla costruzione comune il proprio genio e la propria gloriosa tradizione, una Comunità di dieci Paesi democratici, tra i più sviluppati del mondo, decisa a rendere irrevocabile il processo di unificazione per consolidare le nostre amicizie, per contribuire in modo decisivo nell’eguaglianza dei rapporti allo sviluppo delle nazioni meno favorite, per sviluppare quale elemento di equilibrio per un migliore ordine internazionale, nuovi rapporti di cooperazione con tutti i popoli del mondo.
Mai come oggi tante opportunità hanno reso possibile ad una generazione di uomini, di operare in concreto per realizzare l’unità europea, l’opera alla quale tanti eminenti statisti hanno dedicato ogni sforzo e pensiero nel passato.
È questa la sfida esaltante dei nostri tempi che noi possiamo e dobbiamo raccogliere”». (Archivi Storici dell’Unione europea- Firenze. Fondo FMM).
Queste parole illuminate risuonarono vigorosamente in Egmont e potrebbero essere quest’oggi le risposte a tante domande e a tanti dubbi, alle incertezze e alle strumentalizzazioni che percorrono il nostro Continente, mettendo in pericolo l’unità raggiunta, da diffondere nelle scuole e da far amare ai giovani che le accoglierebbero come valore atteso, così come le accogliemmo noi.
Al discorso di Malfatti seguirono quelli del premier belga Eysken, del primo ministro inglese Heath, di Baldovino, re del Belgio, del premier danese Krag e di quello norvegese Bratelli. Poi si passò alla firma. L’atto che trasformò la Comunità da Sei Stati a Dieci non fu siglato da Franco Maria. Questa soddisfazione gliela negò la Francia, che non volle assolutamente, impedendogli un diritto che invece gli avevano riconosciuto gli altri stati membri.
L’ingresso dell’Inghilterra nella CEE, inutile a dirlo!, fu un avvenimento di rilevanza mondiale, come ben si può immaginare, e fu un grande successo di Franco Maria, che lo conseguì non da solo, è ovvio, ma di sicuro egli ne fu uno dei maggiori artefici. Le lunghissime trattative s’erano concluse nella notte tra il 9 ed il 10 febbraio 1971. L’accordo rischiò di naufragare all’ultimo momento. Anzi di scivolare non su un panetto, ma addirittura su una colossale montagna di burro, frutto di spremiture di mucche e pecore neozelandesi, allevate nei vasti e lontanissimi territori dei Maori. I francesi erano contrari ad accordare un regime particolare alle importazioni di questi prodotti dalla Nuova Zelanda, che faceva parte del Commonwealth inglese. Alla fine fu Malfatti a trovare la chiave di volta per un compromesso. L’Europa avrebbe importato l’80% di burro e il 20 per cento dei formaggi prodotti dai neozelandesi. Tali percentuali furono gradite a tutti. Il motivo non fu chiaramente spiegato, trattandosi di prodotti di stalla non agradable gentleman. Dopodiché ci si disse d’accordo sul seguito, che riguardava l’ammontare, l’8,64 %, che gli inglesi avrebbero versato al bilancio comunitario ad iniziare dal primo anno del periodo di transizione, che era il 1973, per raggiungere il 19,19 % in modo graduale fino al 1977. Non si trattava di poca cosa, ma di ben novecento milioni di dollari alla fine dei cinque, anni sui quali il primo ministro Edward Heath aveva tirato come il sensale in una fiera di bestiame dello Yorkshire.

Il debito dell’Inghilterra nei confronti di Franco Maria

Il Presidente Malfatti s’era impegnato, e lo fece tempestivamente, ad informare dei propri propositi (le dimissioni e la fine anticipata del proprio mandato di presidente), i Ministri degli Esteri dei Sei. Li ragguagliò il 2 di marzo. […] Il 20 marzo giunse al Presidente una lettera di saluto di Maurice Schumann. […] Questa lettera era importante, perché il Ministro degli Esteri di Pompidou gli dava atto dei valori posseduti, l’ampia competenza ed una certa amicizia che Schumann nutriva per Franco Maria, e infine lo ripagava di tutti i triboli che aveva dovuto subire per la politica gollista che ancora il governo di Parigi osservava in modo annacquato.
Seguirono le lettere di Georges Berthoin, Capo della Delegazione inglese della Commissione delle Comunità europee, che aveva sede in Kensington Palace Gardens di Londra, quella del Ministro degli esteri belga monsieur P. Harmel, di W.K.N. Schmelzer, del Minister van Buitenlandse Zaken di S-Gravenhage, del Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri del Luxembourg, monsieur Gaston Thorn e quella di Geoffrey Rippon, Chancellor of the Duchy of Lancaster.
Ma la lettera che più di tutte doveva consolare Franco Maria in quei frangenti così burrascosi di quelle ultime settimane trascorse a Bruxelles, fu quella del suo amico sir Edward Heath: «Caro Presidente, ho appreso con sincero rincrescimento che Ella lascerà prossimamente la Presidenza della Commissione Europea. Nell’inviarLe i miei voti per l’avvenire, colgo l’occasione per esprimerLe la mia personale gratitudine e quella dei miei colleghi per l’assistenza e la comprensione che Lei, e la Commissione da Lei guidata, hanno dimostrato durante i nostri negoziati per aderire alla Comunità. Tutti i membri della Comunità allargata Le sono in debito, ma nessuno in misura maggiore di noi». (E.U.I. nota già citata).
Che il Primo Ministro di Elisabetta II desse un tale esteso e concreto titolo di merito all’uomo politico sabino, era davvero il segno che Franco Maria aveva ben fatto e che l’Inghilterra riconosceva – senza alcuna esagerazione – il decisivo contributo che l’Italia, attraverso Malfatti, aveva dato al suo ingresso nella Comunità.