La foto che non c’è: il prete del D-Day fra i corpi dei soldati

È uno dei maggiori rammarichi del grande fotografo ungherese: a causa dell’errore di un tecnico addetto allo sviluppo a Londra, solo 11 di quegli scatti memorabili sono sopravvissuti. Grazie al racconto dell’autore, è stato messo in risalto il ruolo avuto nella Seconda Guerra Mondiale dai “Chaplains”, i cappellani militari. Storie di uomini coraggiosi, talvolta autentici eroi, che meritano la memoria.

Sapere che una delle foto più belle mai scattate non sarà mai pubblicata, o peggio ancora non vedrà mai la luce, è uno dei maggiori rammarichi di qualsiasi fotografo. È accaduto anche a Robert Capa (pseudonimo dell’ungherese Endre Ernő Friedmann), il celebre fotografo che ha immortalato il D-Day, lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. Le sue foto sono passate alla storia e hanno impresso su pellicola gli attimi di quella cruenta e drammatica battaglia. Ma come per la prima ondata di soldati, sbarcati in tanti e sopravvissuti in pochi, anche le oltre 106 foto scattate da Capa quel giorno si sono arenate per sempre sulla spiaggia di Omaha Beach. Secondo la versione ufficiale, infatti, a causa di un errore di un tecnico addetto allo sviluppo a Londra, solo 11 di quegli scatti memorabili sono sopravvissuti. Tutte le altre foto sono andate perse e, tra queste, una delle più significative e toccanti dell’intera giornata, a detta dello stesso Capa: un prete, in piedi, in mezzo ai corpi dei soldati falcidiati dalle mitragliatrici e dalle bombe. Un’immagine intensa, cruda che forse sarebbe diventata la foto di Capa più famosa, ancor più della celebre “morte di un miliziano”, scattata durante la guerra civile spagnola. Una foto, però, che nessuno potrà mai vedere, ma che grazie al racconto dell’autore ha messo in risalto il ruolo avuto nella Seconda Guerra Mondiale dai “Chaplains”, i cappellani militari.

“L’invisibile compagno”.

Una figura, quella del cappellano, che ha accompagnato e confortato i soldati in tante battaglie e, come i loro commilitoni, ha versato il proprio tributo di sangue in tutte le guerre del secolo scorso. I cappellani militari, la cui nascita sembrerebbe risalire ai tempi di Costantino, sono stati da sempre “l’invisibile compagno”, come scriveva il beato don Carlo Gnocchi, degli uomini in armi. Non un semplice assistente militare, ma un amico, un confidente cui rivolgersi in qualsiasi momento per trovare una parola di conforto, un incoraggiamento. Una guida che ha accompagnato i soldati nei momenti più bui della guerra senza discriminazione, senza distinzione tra le varie fedi religiose e si adoperava per risollevare il morale e alleviare l’animo dell’uomo nascosto dietro la divisa. E proprio i “chaplains” sono stati, secondo lo scrittore Lyle W. Dorsett nel suo “Serving God and Country: Us Military Chaplains in WwII”, “ad aprire un nuovo terreno per l’integrazione razziale di cui sono diventati pionieri nelle Forze Armate Usa”.

“Padre paracadute” e gli altri eroi.

Il sentirsi fratelli, indifferentemente dalla fede, la condivisione della fatica, del pericolo e dell’orrore della guerra, ha reso i cappellani militari delle figure fondamentali per il morale dei soldati sui vari fronti di guerra. Alcuni di questi sono dei veri eroi ed esempi per le truppe, come don Francis L. Sampson, conosciuto come “padre paracadute” poiché aggregato al 501° regimento paracadutisti degli Stati Uniti, lanciatosi in Normandia 5 ore prima del D-Day, catturato dalle SS e messo in salvo da un soldato cattolico tedesco. E mentre padre Sampson assisteva spiritualmente le truppe nell’entroterra, il reverendo irlandese Cyril Patrick Crean, “padre Paddy” per i suoi commilitoni, sbarcava con la 29ma Brigata Corazzata su Juno Beach, spiccando per il suo instancabile lavoro al fianco dei feriti e di chiunque avesse bisogno. Il suo lavoro sul campo di battaglia fu ricompensato nel 1946 con una delle più importanti onorificenze del Regno Unito: la Mbe (the Most Excellent Order). Lo stesso spirito di sacrificio e sprezzo del pericolo che permise al gesuita Joseph T. O’Callahan di ricevere la “Medal of Honor” che, durante il II conflitto mondiale, fu conferita a soli 464 soldati, parte dei quali morì proprio durante l’azione che gli valse l’onorificenza. Ma di “chaplains” insigniti di medaglie e decorazioni per la loro opera spirituale al fianco dei soldati su vari fronti della Seconda Guerra Mondiale ce ne sono stati tanti. Tant’è che proprio il Congresso Usa nel 1960 decise di istituire la “Four Chaplains’ Medal”, per commemorare l’eroismo di 4 cappellani americani George L. Fox, Alexander D. Goode, Clark V. Poling e John P. Washington.

Confessori, amici e partigiani.

Stessa dimostrazione di carità cristiana che sul fronte italiano vide protagonisti tantissimi cappellani che, prima al fianco dell’esercito regio poi ai gruppi di partigiani, non smisero mai di assistere, sostenere e rincuorare i soldati. Non a caso ben 10 furono i “cappellani” insigniti della Medaglia d’Oro al valor militare. Dal trentunenne Giuseppe Morosini, che fu fucilato il 3 aprile 1944 a Forte Bravetta, al trentaquattrenne Stefano Oberto morto il 15 aprile 1943 in prigionia nel campo 74 di Oranki, passando per Aldo Moretti, Igino Lega, Enelio Franzoni, Giovanni Brevi, Ettore Accorsi, Pacifico Arcangeli, Reginaldo Giuliani e Felice Stroppiana.

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