Europa

Europa senza festa, nella pandemia. Hollerich: «Adesso serve più empatia»

Il presidente dei vescovi Ue: importanti iniziative di solidarietà, ma i popoli non percepiscono vicinanza emotiva. «I leader mostrino di soffrire con chi soffre»

Più che un allarme, è una constatazione: «Non si può più pensare l’Europa senza Unione Europea, perché questa sarebbe la fine dell’Europa». Ad affermarlo è il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, la Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea. Gesuita, con vent’anni di esperienza di missione in Giappone, il cardinale sa bene che quest’anno la Festa dell’Europa assume un significato del tutto particolare: mentre il mondo fronteggia l’emergenza coronavirus, l’attenzione di molti osservatori si concentra sulle capacità di reazione della Ue. «Che adesso – insiste il cardinale Hollerich – deve essere in grado si dare una risposta particolarmente forte anche sul piano emotivo».

Qual è il suo giudizio su quello che è stato fatto finora?
Fin dall’inizio della pandemia l’Unione Europea ha preso molte iniziative importanti, ma non le ha fatte conoscere abbastanza, non le ha diffuse come avrebbe dovuto. Nell’opinione pubblica ha preso a circolare la convinzione che la Ue sia rimasta a guardare, mentre invece non è stato, e non è affatto così. Purtroppo i popoli europei, specialmente i più colpiti dal virus (penso, tra gli altri, a Italia, Francia e Spagna) non hanno percepito l’empatia delle istituzioni europee, che pure si sono prodigate. Sarebbe bene che adesso i dirigenti dell’Unione mostrassero di soffrire con chi che soffre. È in questo senso che parlo della necessità di una risposta emotiva più forte, più riconoscibile.

Quale dovrebbe essere, d’ora in poi, il ruolo dell’Europa?
In questo periodo anche papa Francesco, che ormai è diventato il parro- co del villaggio globale, ha parlato spesso di Europa, e questo non è un caso. L’Europa è sempre stata una potenza che ha operato per un equilibrio mondiale, ma questo non significa che nell’immediato futuro non sia destinata a sperimentare gli effetti negativi della pandemia, primo fra tutti un incremento della disoccupazione. Ma nei Paesi extraeuropei già in precedenza segnati dalla povertà, le persone rischieranno di morire di fame, letteralmente. Sappiamo che i problemi non mancheranno, ma una sventura comune di queste proporzioni non può che spingerci a pratica forme di autentica solidarietà.


Settant’anni dopo le parole di Schuman

Il Giorno europeo o Festa dell’Europa si celebra il 9 maggio di ogni anno. Questa data ricorda il giorno del 1950 in cui vi fu la presentazione da parte di Robert Schuman del piano di cooperazione economica, ideato da Jean Monnet ed esposto nella Dichiarazione Schuman, che segna l’inizio del processo d’integrazione europea con l’obiettivo di una futura unione federale. La data coincide anche con la fine, di fatto, della Seconda guerra mondiale.


E la Chiesa? Che cosa può aspettarsi?
Da un lato c’è il legittimo desiderio che le chiese tornino a riempirsi di fedeli, ma non possiamo dimenticare che, come ogni altro luogo, in questo momento anche le chiese devono anzitutto essere sicure. Occorre mettere in atto ogni iniziativa che aiuti a tutelare la salute dei fedeli. Allargando la prospettiva, non possiamo nasconderci che in Europa la Chiesa si trova in qualche modo in difficoltà. Ogni Conferenza episcopale sta reagendo alla crisi secondo le sue caratteristiche specifiche, esercitando una giusta autonomia, ma le decisioni prese sono più efficaci dove esiste un maggior coordinamento, come accade per esempio in America Latina e in Asia.

Quale lezione viene da questo periodo?
La situazione che stiamo affrontando ci insegna quanto sia indispensabile prepararsi e quanto sia urgente ripensare i mezzi di comunicazione. Certo, la Messa on-line non può essere considerata una soluzione definitiva, però è già un segno e in quanto tale va valorizzata. Siamo solo all’inizio dell’evangelizzazione attraverso questi strumenti tecnologici, che d’ora in avanti non smetteremo più di utilizzare. Per i giovani, lo sappiamo bene, lo smartphone è già come una parte del corpo. Ma tutto questo non può farci dimenticare che, oggi più che mai, i cristiani sono chiamati ad essere uomini e donne della speranza tradotta in azioni concrete.

Da avvenire.it