Eucaristia forza di una Chiesa fragile

Meditazione di mons. Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina su “Eucaristia forza di una Chiesa fragile”, in occasione del Congresso Eucaristico Diocesano di Rieti.

Ci sono nella nostra vita alcuni momenti in cui abbiamo dei presagi. Ci sembra che stia capitando qualcosa, ci sentiamo instabili, ci par di leggere segnali dovunque, c’è qualcosa che sta capitando, di cui non ti rendi conto bene. Dopo che sarà capitato dirai: ce ne dava il sangue, lo sentivo nelle ossa, me lo sono sognato, vedevo che non era tutto come sempre…

Ebbene Gesù non solo presagiva la sua morte quella sera, ma ne era certo. La sua non era solo una sensazione, ma una coscienza. Che il cerchio si stesse stringendo attorno a Lui, non ci voleva molto a saperlo. Gli stessi apostoli, che non sono mai stati delle aquile nell’intuire quello che Gesù provava, si erano molto meravigliati quando è andato da Lazzaro. Sanno che tutti lo stanno braccando come un animale e lui ci casca lo stesso. “Andiamo anche noi a morire con Lui!” esclamano ironici.

Gesù aveva la consapevolezza molto umana, ma non per questo meno intensa, di quella morte che lo attendeva al varco. Questo non lo spaventava, ma lo metteva di fronte alla sua missione, alla conclusione della sua vita, allo scopo del suo essere tra gli uomini. Ha cercato allora uno spazio umanissimo, immediato, definitivo per dimostrarsi

Ha curato nei particolari una cena che i discepoli non erano soliti fare, se non presso qualche ricco ospite che invitava Gesù. Questa volta è Lui che invita, è Lui che decide il luogo, è Lui che li vuole tutti attorno a sé. E’ Lui che si cura delle abluzioni, è Lui che lava i piedi a tutti. Il centro è Lui, perché la cena di quel giorno è la cena del dono di sé fino alla fine.

La mia vita non me la prenderanno con inganno o con strategie politiche, per farsi qualche piacere l’un l’altro o Erode o Pilato o Anna e Caifa o i mestatori di popolo, la dono io. Sono venuto per questo. Eccola, ve la dono, la metto nelle vostre mani, non come dolore e sventura, ma come gesto d’amore. Prese un pane lo spezzò: prendete… prese il vino e disse prendete…

Trasforma un presagio, diremmo noi, una consapevolezza direbbe l’intelligenza umana, in una volontà esplicita e anticipatrice.

Qui sta lo snodo fondamentale della mia missione: vi do la mia vita, perché vi voglio troppo bene. Non posso permettere più che il male sia l’ultima parola sui vostri sentimenti, affetti, azioni, corpi e relazioni. Questo pane spezzato e questo vino versato saranno sempre il segno di un dono senza rimpianti, di una vita donata senza ripensamenti, saranno il segno del mio corpo dilaniato e del mio sangue versato per amore, solo per amore.

E potrete sempre rifare questi miei gesti e ogni volta che li rifarete io sarò lì ancora a dirvi che vi voglio bene, a dirvi che non immaginate che Padre avete nei cieli, a ricordarvi che è finita la schiavitù, che l’ultima parola non è la morte, anche se in cuore avrete odio, anche se userete questi miei segni per farvi belli, in una chiesa dove state solo per dovere, in una comunità che usa la messa per truccare l’odio e la falsità, anche quando i gesti li compirà un prete senza fede, senza amore, pieno di ambizioni.

E’ un dono per sempre, senza ripensamenti o nostalgie.

L’atmosfera in cui questo gesto si compie e si proietta per sempre nel futuro di ogni uomo, è il tradimento di Giuda e l’imminenza della fuga di tutti gli altri; è il sicuro presentimento della fine, lo scorrere davanti agli occhi di Gesù della sequenza del dolore.

L’Eucaristia ci è stata donata tra un tradimento e una passione, ma ha prefigurato una risurrezione. Questo è l’unico modo che abbiamo di vivere e di essere felici.

Per questo la mettiamo al centro del giorno del Signore, perché è una finestra che apre il nostro tempo sull’eternità. L’abbiamo ridotta a un precetto, invece è il dono più grande che Dio ci ha fatto.

E noi ancora oggi, come sempre anche in futuro, fino al compimento nel Regno dei cieli, riviviamo quei gesti solenni compiuti sul pane e sul vino.

Farete questo sempre, ogni giorno della vita, in ogni luogo in cui vi troverete, così rivivrete la mia morte e la mia risurrezione finché ritornerò. In forza di questo cibo saprete affrontare tutte le prove dolorose della vita e ne uscirete vittoriosi.

Ecco il senso della vita, del cammino di Gesù e di ogni vita umana. Prendere, benedire, spezzare… sono i segni di una vita donata; di una vita che non si avvolge su se stessa, che non idolatra il proprio io… ma ne fa dono. Un saggio ha scritto che l’amore comincia dove finiscono le corazze dell’io, quando l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia, effimera o eterna. Quando sono pronto ad accettare persino la condanna eterna per quelli che mi sono stati dati, per quelli che amo.

Le nostre comunità cristiane quando celebrano l’Eucaristia, quando la adorano sono entro questo disegno di Dio. La nostra chiesa oggi sembra bene alla comunità disperata degli apostoli: molti in fuga, alcuni traditori, molti indifferenti e supponenti, tantissimi adattati al basso. Così accorato ha descritto questi ultimi cinquant’anni il papa all’inizio dell’anno della fede:

In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato».

Le parole: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue dato per voi…

Queste parole di Gesù – insieme ai suoi gesti – danno il senso di ciò che sta per accadere. Si trovano immediatamente prima della sua passione e morte e, dunque, ne danno in qualche modo la chiave di lettura. Infatti, leggendo il racconto di Marco (ma anche quello degli altri evangelisti) il significato della morte di Gesù in croce non è del tutto evidente. Marco, parla della tenebra che cadde sulla terra dall’ora sesta fino all’ora nona e del grido di Gesù che, a gran voce, esclamò: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? (Mt 27,45-46). Per Marco, la passione e morte di Gesù è, dunque, tenebra e giudizio (cf. Am 8,9; Gioe. 2,1-2.10; ecc.), ma è un giudizio che anzitutto si abbatte su Gesù stesso. Gesù appare solo e abbandonato e l’evangelista non si esime dal sottolinearlo: neanche Dio risponde al suo grido. “L’umanità di Gesù subisce una specie di «esecrazione», nel senso etimologico del termine, perché «esecrazione» è il contrario di «consacrazione»” (Vanhoye). Gesù, in questo momento, subisce nella sua persona veramente una riprovazione totale: degli uomini, che lo hanno rigettato, e di Dio, che lo ha abbandonato in loro potere.

Ma ecco il capovolgimento: la fede espressa dal centurione subito dopo la morte (quest’uomo era veramente figlio di Dio” Mt 27,54) cambia la prospettiva: il lettore comprende che in questo uomo condannato, in questo uomo solo e abbandonato, in queste tenebre abita Dio. E infatti il primo libro dei Re afferma che Dio “ha voluto abitare in una nube oscura” (cf. 1 Re 8,12 e 2 Cr 6,1). Le tenebre del giudizio, insomma, le tenebre dell’abbandono e della morte testimoniano la presenza e la fedeltà di Dio, la solidarietà di Dio.

Tutto questo dicono le parole di Gesù sul pane e sul calice: nel pane spezzato, nel sangue versato Dio dice definitivamente il suo “amen”, il suo sì alla creazione e all’uomo, alle nostre comunità divise e segnate dal peccato. E il nostro papa Benedetto aggiungeva: “Questa è una parte delle esperienze fatte in questi cinquant’anni, ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza. Il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica. Anche oggi, a suo modo, umile, il Signore è presente e dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!”

La notte pasquale di Cristo testimonia che nessun uomo potrà mai disperare dell’incontro con Dio.

Se Dio è presente nel grido del condannato che è suo Figlio, questo significa che Dio è pure presente nel grido di tutti i derelitti e i riprovati di ogni tempo. E’ un Dio che testimonia la sua presenza nel grido degli esecrati. Questo significa che anche le tenebre testimoniano la presenza e la fedeltà di Dio, la Sua estrema solidarietà con l’uomo. La morte di Gesù come un malfattore attesta che l’amore di Dio trova la strada per arrivare fino alla morte del malfattore. Se Gesù muore in un inferno di peccato e di solitudine, e se in quel momento Dio è presente, allora significa che nessun inferno ha il potere di lasciare Dio fuori della sua porta. Proprio come recita una vecchia preghiera della chiesa ortodossa: “Tu sei venuto a cercare Adamo sulla terra, ma non ve lo hai trovato e allora sei sceso negli inferi”. E difatti, nel Credo apostolico, noi professiamo: “morì, fu sepolto, discese negli inferi e il terzo giorno risuscitò”. Un altro testimone, nostro contemporaneo, ha lasciato scritto: “Oh quanti cercate, state sereni. Egli per noi non verrà mai meno e Lui stesso varcherà l’abisso” (Turoldo). Nessun uomo potrà mai disperare dell’incontro con Dio, anche quando avesse fatto della sua vita una vita d’inferno. Dio stesso varcherà l’abisso, perché Lui non ha paura dei nostri inferni. In questo senso, suonano ancora del tutto attuali gli scritti di Bonhoeffer che afferma: “la morte di Gesù crocifisso, come un delinquente, mostra che l’amore divino trova la strada per arrivare fino alla morte del delinquente; e se Gesù muore sulla croce gridando: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), questo significa ancora una volta che l’eterna volontà di amore di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli dispera per l’abbandono di Dio”. Ciò significa che la croce è anzitutto il segno del dono di un Dio che non esige e non schiaccia, ma salva l’uomo facendosi suo fratello nella debolezza e nell’impotenza.

La Pasqua è annuncio di resurrezione perché dice che Dio ha salvato l’uomo non in virtù della sua potenza, ma in virtù della sua impotenza e che la salvezza passa paradossalmente per le strade della debolezza di un amore crocifisso.

L’etica dominante è dalla parte del potere e non della croce; il Vangelo, invece, pone al centro della vita l’amore crocifisso, che salva l’uomo non in virtù della sua potenza, ma della sua impotenza. Credere in questo amore significa credere che esiste nel vissuto un altro ordine di realtà. La croce mostra l’altra faccia delle cose: dice che la vittoria è nell’oblazione, e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sulla “pietra che i costruttori hanno scartato” (Mc 12,10). Agostino ha affermato che l’alternativa radicale, davanti alla quale fu posto il Figlio di Dio nella sua vita, fu la seguente: “l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé”. In queste parole trovo il senso pieno della croce, che va letta nella prospettiva del Figlio dell’Uomo “venuto per servire e per dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Essa rivela l’amore di un Dio che arriva fino alla dimenticanza di sé per sposare la causa dell’uomo. La croce, dunque, nella visuale cristiana, non è essenzialmente limite, ma amore, solidarietà con le vittime, fiducia nella potenza di Dio, che si manifesta nell’impotenza di chi si lascia crocifiggere per amore. Ciò significa che essa è anzitutto il segno del dono di un Dio che non esige e non schiaccia, ma che salva l’uomo facendosi suo fratello nella debolezza e nel peccato. L’eucaristia pone, in effetti, davanti a tutti, un’alternativa radicale: il potere o l’amore. Ogni vita, prima o poi, si trova davanti a questo bivio: o sceglie la via del dominio e della prevaricazione dell’uomo sull’uomo o la via del servizio. Si tratta della scelta “tipo” o, se vogliamo, della tentazione originaria: quella di Adamo ed Eva, certo, ma anche quella di Cristo raccontata dai Vangeli all’inizio del ministero. O si vive dando il primato alla propria immagine e al proprio ruolo, e dunque a se stessi, o si vive dando il primato all’Altro/altri, al servizio di Dio e dell’uomo.

Questo significa che la vera vittoria cristiana è nell’oblazione e non nella potenza dei mezzi, e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sullo scandalo della croce.

Non dobbiamo mai dimenticare che il fondamento su cui poggia la chiesa è in una pietra scartata dai costruttori. La distanza tra il lettore modello dipinto dall’evangelo e i lettori reali del secolo attuale consiste proprio in questo: come per i dodici apostoli del tempo di Gesù, anche per i lettori di oggi, la verità di Dio e dell’uomo cammina sulle strade del successo, del possesso e dell’“egotismo” pago di sé; sulle strade di un Dio che vince schiodando i crocifissi e di una risurrezione che obbliga l’uomo a inginocchiarsi. Per il Vangelo, invece, la risurrezione passa per il granello di grano che muore per dare la vita, per le strade dell’amore e non per quelle della ragionevolezza. Troppo spesso le nostre comunità si sono affidate alle opere delle loro mani. Insomma, all’idolatria. Perché nella Bibbia la tentazione non è l’ateismo, ma l’idolatria. Abbiamo dimenticato che solo Dio è Dio. Adorare non è un gesto di cortesia, tanto meno un gesto formale; non è il gesto storpiato del sacrista che deve passare troppe volte davanti al tabernacolo, non è una commozione, ma una impostazione nuova di tutta la propria vita nella direzione di quel Dio che si adora, di Gesù. E’ fare ordine nella propria vita, nei propri affetti, nelle proprie intenzioni perché ne è stato trovato il centro, il punto più alto, la meta.

È dire a tutti che il nostro corpo, la nostra intelligenza si piegano, ma solo a Lui. Non è il danaro che ci farà piegare, non è il datore di lavoro o il professore, da cui spesso dipende il nostro benessere, non è nemmeno l’amato o l’amata, anche il più puro e il più sacro. Ricordate quanto diceva papa Giovanni Paolo II a Tor Vergata: “Voi pensate alla vostra scelta affettiva, e immagino che siate d’accordo: ciò che veramente conta nella vita è la persona con la quale si decide di condividerla. Attenti, però! Ogni persona umana è inevitabilmente limitata: anche nel matrimonio più riuscito, non si può non mettere in conto una certa misura di delusione”1. Dio solo adorerai, Dio solo sarà cioè capace di riempire tutta la tua esistenza e di darti la felicità piena.

Spesso siamo infelici perché moltiplichiamo le adorazioni, crediamo che la nostra vita possa inginocchiarsi davanti a tutti e a tante cose. No, ci si inginocchia solo davanti a Dio. Piegare le ginocchia non è un gesto di galateo, ma decisione di mettere la vita a servizio di Dio, riconoscerne la assoluta necessità nel nostro vivere quotidiano e essere sicuri di avere un Padre Onnipotente. La speranza rimette l’esito dell’impegno nelle mani di Dio. La fede autentica non si nutre delle proprie benemerenze, ma rimette la crescita nelle mani di Dio. Il futuro del seme è nelle mani di Dio e non nelle nostre. Credere significa dar credito a un Dio che si manifesta al di là delle attese fondate su una logica di pura efficienza umana. Ed è proprio qui che il discorso sulla speranza diventa più impegnativo. La speranza cristiana non racchiude la realizzazione del Progetto divino nei propri angusti orizzonti, ma spinge lo sguardo a un “al di là” che sempre ci sorpassa e ci sorprende.

La speranza nasce lì dove l’uomo, la comunità, è capace di riappropriarsi di ciò che è essenziale: la forza dell’amore. Il cristianesimo – ma anche molte comunità cristiane – hanno perso questa dimensione dell’essenzialità, affascinate sempre di più dai grandi progetti, dalle strutture. Le istituzioni sono necessarie, intendiamoci, ma se la struttura assume sempre più importanza a scapito della fede, se ciò che importa è solo il numero, la visibilità, le case…, allora è facile prevedere che non saremo più lievito, ma solo involucri, senz’anima; ci trascineremo dietro strutture pesanti e soffocanti, senza più gioia e vita. Solo affanno. Tireremo a campare cercando di far quadrare i conti. L’eucaristia è la radicale contestazione di questo approccio alla vita.

Il centro della nostra vita di cristiani è l’Eucaristia: è quella messa, tentata di abitudine, spesso entusiasta, talora fredda e distratta. E’ il diario dei nostri giorni. E’ sempre la vita donata fino all’effusione del sangue di Gesù e fino alla risurrezione. A Messa soltanto siamo in grado di rispondere alla domanda: quanto ci ama Dio? Quanto ama la mia vita, la vita della gente?

Quando partecipiamo alla messa, anche se l’abbiamo spesso ridotta a una serie di pezzi disarticolati: il confiteor, la parola, l’offertorio, il canone… è come se parlassimo con Abramo, figura di Dio Padre, che si confida con noi nel momento in cui sente suo figlio chiedergli in maniera pulita, fiduciosa, ingenua: papà qui c’è l’altare, il fuoco, la legna, ma la vittima dove è? Avete badato come il canone che diciamo è sempre rivolto al Padre, non a Gesù. Noi parliamo col Padre che vorrebbe mille volte essere Lui al posto del Figlio come Abramo, come faremmo ciascuno di noi. Partecipiamo a un mistero d’amore e o ci sentiamo incompresi o siamo noi stessi incapaci di comprendere.

È il gesto che caratterizza ancora popolarmente chi sta dentro e chi sta fuori della chiesa. Abbiamo un bel dire che la vita cristiana non è riducibile a riti, a pratiche, ma la messa, anche nella percezione della gente è ben più di un rito o una pratica, è il cuore della vita cristiana. Qui c’è la Parola, qui c’è la salvezza, qui c’è la sorgente di ogni vita di carità.

Ecco questa Eucaristia vogliamo mettere al centro della nostra vita. Mettere al centro l’Eucaristia è per noi una necessità, un obbligo che abbiamo verso di noi, per radicarci nell’essenziale della nostra vita di cristiani e verso la gente per riportarla a pensare su quale è il cuore della nostra presenza nel mondo. Un prete potrebbe dire: cari cittadini, abbiate pietà di noi, ma in una cosa non vi deludiamo: Cristo ve lo presentiamo sempre, ogni giorno, ogni domenica: la salvezza è Lui. Potremmo essere anche meno orsi, più affabili, più generosi, meno litigiosi, più dedicati, più preparati culturalmente (quante cose debbono farsi perdonare i preti!), ma su questo siamo fieri di essere con voi tutti i giorni per non farvi mancare la misura dell’amore di Dio.

Oggi la gente chiede che tutti quelli che vanno a messa siano credenti, che vedano in quel pezzo di pane e bicchiere di vino la salvezza che è Gesù e che la aiutiamo a trovare in Lui la forza della vita.

E non ditemi che stiamo tornando a un comodo ritualismo. L’Eucaristia è una bella zappa che ci tiriamo sui piedi. Spezziamo il pane, ma per spezzare la vita; beviamo il calice, ma per condividere dolori e speranze, ci accostiamo alle comunioni per fare comunione; ascoltiamo la Parola, ma per farci giudicare da essa e dalla comunità degli uomini. L’Eucaristia è l’immagine della nostra vita di credenti. Ho sempre presente la decisione di Giovanni Paolo II nel presentare ai due milioni di giovani di Tor Vergata Gesù disposto a perdere tutti i suoi apostoli pur di non retrocedere rispetto al discorso eucaristico. “Volete andarvene anche voi?! E siamo al vangelo di Giovanni, non siamo a un testo dell’Imitazione di Cristo, bello, utile, ma devozionale, nato dalle nostre esperienze di fede. L’Eucaristia viene da Gesù.

L’Eucaristia ci permette di misurare la nostra fede. Non misuro la qualità della mia fede prima di tutto dalla forza delle mie convinzioni, dalla generosità dei miei gesti, dalla soddisfazione del mio progresso umano e spirituale, dal grado della mia serenità o dalla capacità di resistere alla mia inquietudine, ma dal rinnovare la mia disponibilità a colui che sulla croce dà la sua vita per me. E questa vita mi viene riconsegnata ad ogni celebrazione eucaristica, ad ogni adorazione.

Una nuova vita di relazioni radicate nell’eucaristia.

La nostra vita quotidiana allora cambia, può trovare risorse impensabili di dedizione, di amore. Ogni vita cristiana, ogni giornata è: Richiesta di perdono; Ascolto della Parola di Dio, della sua vicenda, della storia della nostra salvezza, Parola scritta a metà nel libro sacro e metà nella vita quotidiana; Lode senza lagne; poter fare ogni giorno i signori e non i piagnoni. Aprirci al grande cuore di Dio; Offerta di se a Dio mettendo a disposizione di Lui il nostro essere, il nostro lavoro, le pene e le gioie; Trasformazione dall’interno di ogni atto o gesto di condivisione; Comunione con tutti, molto più di ogni tavolo di concertazione, perché è Lui che la tiene in mano; orza di cambiamento e di impegno: dono di sé fino al martirio.

Ricordo quanto un giorno ci disse p. Dalmazio Mongillo, un bravo teologo domenicano. Un giorno a casa di mia madre sto in sala a leggere; sento in sottofondo che lei sta lavando i piatti e dice: Benedetto sei tu Signore Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane te lo offriamo perché diventi per noi cibo di vita eterna. Ma mamma che stai dicendo, queste sono le parole del prete, della messa? E lei rispose: Vedi, tu che sei prete le dici tutti i giorni quando parli con il Signore. È la tua vita. E io non posso offrire la mia vita semplice di ogni giorno come fai tu? Questa mia vita questi miei lavori quotidiani ripetuti fino allo sfinimento per il Signore sono pane e vino, solo che chiedo che diventino suoi fino in fondo, suo corpo e suo sangue.

L’Eucaristia forza della vita per la comunione di ogni giorno.

Da tutto questo trova senso pieno una esperienza d’amore come quella della famiglia che si porta dentro i significati precisi di fatica, di pazienza, di perdono, di percorso comune che sono assunti dalla stessa esperienza sacrificale della Eucaristia, dall’essere dono fino alla consumazione. Allora diventa vero nutrimento, diventa luogo di confronto sulla sensatezza di quello che viviamo, facciamo, operiamo nella società, nel lavoro, nella piccola e grande imprenditoria, diventa orizzonte di speranza nelle difficoltà. Diventa dono inesauribile per una famiglia che pone nell’amore il suo fondamento, in Cristo che si dona alla Chiesa la sua immagine operante nei rapporti d’amore, nel suo corpo e nel suo sangue il nutrimento e la forza per vincere l’egoismo. Diventa sostegno e traccia di percorso per chi nel mondo mette a disposizione il suo tempo, il suo genio, la sua operatività per creare lavoro e per essere con coraggio, col coraggio del dono fino al sangue, contro la corrente accattivante del successo o dell’intrigo, un cristiano che fa dell’Eucaristia la scelta quotidiana di condivisione e di alzare gli occhi al cielo.

Si possono costruire comunità di persone che fanno dell’Eucaristia la loro costante ispirazione, nel lavoro educativo, nel mondo delle relazioni di solidarietà, nella vita religiosa, nello sforzo di costruire persone mature, nel costruire percorsi eucaristici di educazione alla vita, alla convivenza pacifica e solidale, alla piena maturità umana. Si può educare a divenire persone eucaristiche che sanno fare della vita un ringraziamento sostanziale e che vivono nel dono e nella gratuità.

Allora la caritas non è una associazione di distribuzione viveri, ma cuore dell’eucaristia che ogni giorno si celebra, strada eucaristica di condivisione, di solidarietà, di comunione, di liberazione da catene di povertà e di miseria.

Le nostre fragilità sono il campo di Dio, non la nostra sicumera e onnipotenza. I cristiani quando diventano padroni (leggeteci sotto tutte i poteri di denaro, di istituzioni, di favori… sono dei pessimi padroni, quando sono sotto torchio e fragili diventano onnipotenti proprio per quel pane spezzato e vino versato.