Esperimento cardiaco

Lo studio permetterà di testare i possibili effetti negativi di alcuni farmaci

Le nuove acquisizioni della ricerca scientifica nel campo biomedico non finiscono mai di stupire. Da qualche decennio, gli scienziati ci hanno abituati a sentir parlare di cellule staminali e dei possibili benefici potenzialmente derivanti (tra ombre e luci) dal loro impiego terapeutico. Adesso, per la prima volta, un gruppo di ricercatori dell’Università della California e Berkeley e del Gladstone Institute of Cardiovascular Disease di San Francisco, è riuscito, partendo da un gruppo di cellule staminali umane, a produrre in laboratorio un tessuto cardiaco che si è organizzato in una struttura tridimensionale – sia pure minuscola – capace di battere regolarmente sulla base degli stimoli biochimici e meccanici ricevuti. L’esperimento è stato raccontato in un recente articolo pubblicato su “Nature Communications”.

Per realizzare l’impresa, i ricercatori sono partiti da cellule staminali pluripotenti “indotte”, ottenute cioè dalla “riprogrammazione” in vitro di cellule adulte – in questo caso ottenute dal tessuto della pelle – il cui orologio biologico è stato riportato indietro fino allo stadio di pluripotenza. Una volta ottenute, le cellule staminali pluripotenti sono state poi trattate con una serie di fattori di crescita, che le hanno indotte a differenziarsi in cellule dei diversi tessuti cardiaci. All’inizio, queste cellule si sono sviluppate espandendosi come una superficie piana (sviluppo bidimensionale), ma dopo appena due settimane, esse hanno cominciato a strutturarsi in tre dimensioni, formando al loro interno delle microcavità (con dimensioni fino a 600 micrometri), strutturalmente corrispondenti alle camere cardiache di un cuore adulto. Ma la cosa ancor più sorprendente, è che queste cellule sono riuscite così bene ad auto-organizzarsi in modo corretto, da cominciare a contrarsi ritmicamente, fino a sviluppare un battito simile a quello del cuore umano. Questo risultato è davvero eccezionale, data la complessità strutturale dei tessuti di un cuore formato. Il tessuto cardiaco, infatti, è costituito da differenti tipi di cellule. Oltre a cellule muscolari striate e lisce, ad esempio, ve ne sono alcune (dette cellule “pacemaker” o “autoritmiche”) che hanno un ruolo centrale nell’innescare e mantenere il battito; altre, poi, formano le cosiddette “fibre di Purkinje”, che hanno il compito di propagare la pulsazione a tutto il muscolo cardiaco. Si capisce, quindi, quanto stupore possa aver suscitato la capacità di queste cellule staminali pluripotenti di “autostrutturarsi” – e per di più in laboratorio – in una forma così complessa e diversificata, dotata di una certa funzionalità cardiaca.

È bene comunque chiarire che la progettazione del disegno sperimentale di questi “cuori” (ovviamente l’esperimento è stato replicato diverse volte), non è stato approntato in vista della creazione di cuori da trapianto – cosa, per il momento, non alla portata degli scienziati -, ma per poter comprendere più a fondo la dinamica dello sviluppo dei tessuti embrionali e la complessa fisiologia del cuore. Inoltre, queste “strutture cardiache indotte” rappresentano un ottimo mezzo per effettuare in laboratorio un rapido ed efficace screening di farmaci potenzialmente tossici sul cuore (cosa che ovviamente non si potrebbe fare su un soggetto vivente).

“Il fatto che abbiamo usato cellule staminali umane pluripotenti derivate da pazienti – ha dichiarato Kevin E. Healy, coordinatore della ricerca – rappresenta un cambiamento epocale nel settore. Gli studi sui microtessuti cardiaci erano stati finora condotti principalmente su cardiomiociti di ratto, che è un modello imperfetto per le malattie umane”. Dunque, la ricaduta più immediata dello studio sarà di fatto la possibilità di testare con rapidità ed efficienza i possibili effetti negativi di alcuni farmaci, come ad esempio il “talidomide”, sullo sviluppo del cuore.