Chiesa di Rieti

Esiste una ricompensa nei cieli che riscatta il non-senso di quaggiù

È sul testo delle Beatitudini che il vescovo Domenico si è soffermato durante la commemorazione dei defunti presieduta il 2 novembre nel cimitero reatino di Vazia

È sul testo delle beatitudini che il vescovo Domenico si è soffermato durante la commemorazione dei defunti presieduta il 2 novembre nel cimitero reatino di Vazia. E in particolare mons Pompili ha sottolineato il paradosso evocato da Gesù, che dichiara beato chi è povero, chi è afflitto, chi ha fame e sete della giustizia, chi è misericordioso, chi è puro di cuore, chi opera per la pace, chi è perseguitato per la giustizia. Il punto è che Gesù non parla di felicità in astratto, non guarda a un’esperienza «caramellosa», non cede ai luoghi comuni. Né, ha aggiunto il vescovo, «la felicità a una conquista moderna». La stessa parola, infatti, si può far risalire al termine greco physis, «che vuol dire natura e indica ciò che genera». Beato, cioè felice, è dunque «la cui vita feconda e non sterile, che porta frutto e, soprattutto, sprizza gioia. Il beato è “con-tento”, perché nella sua vita tutto si tiene armonicamente».

Una prospettiva che riportata al testo delle Beatitudini ha consentito a mons Pompili di offrire tre spunti. Il primo dei quali è lo scarto tra l’avere e l’essere: «Beati sono quelli che puntano non su quello che hanno o possono esibire, ma su quel che sono. Il ricco, il potente, lo spavaldo, il furbo fanno leva sempre e solo su quello che possono prendere. Invece il beato ancorché povero, afflitto, mite, indifeso fa leva su quel che può dare». Il paradosso evocato da Gesù spiega perché oggi la felicità è rara: il punto è che «l’abbiamo scambiata per l’accumulazione seriale, mentre è una esperienza sempre fragile e incerta. Se la depressione prende anche i più piccoli è perché non si sa più dove è la felicità che si scambia con il possesso delle cose, dei ruoli, delle performance».

Il secondo spunto è la dimensione sociale e non solo individuale della felicità: «Non si sta bene quando noi siamo a posto e gli altri non si sa. Pensare che quando sto bene io stanno bene tutti è un colossale equivoco che non ci porta alla felicità. Occorre ritrovare questo dato largo e quasi globale, che peraltro la pandemia ancora in corso ci ha fatto riscoprire per cui siamo tutti “connessi” e “nessuno si salva da solo”».

Il terzo e ultimo spunto è che esiste una ricompensa nei cieli, che c’è una prospettiva che riscatta anche il non-senso di quaggiù dentro una speranza più grande: «Non si spiega la vita solo a partire da questa “valle di lacrime”», ha sottolineato il vescovo: «Se ci si ferma a questa apparenza, si rischia di perdere di vista l’essenziale. Ci vuole una dimensione ulteriore di pienezza che fa sentire questa vita come la terra in cui il seme si immerge per rinascere spiga di grano. “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”, pare dicesse spesso san Francesco, l’uomo della perfetta letizia. Perché letizia viene da letame che è ciò che feconda. In questo senso tutti possiamo diventare “santi subito”!».