Elezioni 2021

Elezioni 2021, astensionismo record

La netta affermazione del centrosinistra si rapporta a un calo storico dell’affluenza: al voto meno di un elettore su due

Le elezioni comunali le hanno vinte il centrosinistra e l’astensionismo. Al termine della tornata, tra primo turno e ballottaggi, la coalizione guidata dal Pd (in alcuni casi con il M5s e i liberaldemocratici di Renzi e Calenda, in altri senza) si aggiudica cinque capoluoghi di regione su sei e quindici capoluoghi di provincia su venti (otto su dieci tra quelli andati al secondo turno), comprendendo anche Carbonia dove si è votato il 10 e 11 ottobre. Mentre in uno, Benevento, è stato confermato un sindaco storicamente di centrodestra, Clemente Mastella, ma che si era presentato senza il sostegno di Lega e Fratelli d’Italia. Non è tuttavia soltanto una questione numerica, perché tra i Comuni andati o rimasti al centrosinistra ci sono le maggiori città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino.

Dunque il Pd di Letta – che in quest’occasione è tornato anche deputato vincendo in prima persona le suppletive di Siena e ha preso pure l’altro collegio in palio a Roma per la Camera – torna ad amministrare Roma, dopo aver sacrificato nel 2015 Ignazio Marino sull’altare delle faide interne al partito e aver lasciato strada libera all’exploit a 5 stelle di Virginia Raggi. Una sindaca, quest’ultima, che non ha saputo farsi apprezzare dalla maggioranza dei romani, malgrado l’impegno che tutti le hanno riconosciuto per la legalità, contro i vari clan che sporcano l’onore e l’immagine della città. Ma troppi sono i problemi rimasti insoluti, quando non peggiorati, negli ultimi cinque anni: il risultato è stata l’esclusione dal ballottaggio (caso più unico che raro per un primo cittadino uscente) e addirittura il quarto posto dietro l’infaticabile Carlo Calenda. Di certo, da oggi Roberto Gualtieri avrà davvero tanto da lavorare.

Agli alleati 5 stelle, il Pd ha strappato anche Torino, dove però la sindaca uscente Chiara Appendino non si era ricandidata, mentre a Napoli e a Bologna l’asse giallo-rosso ha funzionato al primo turno, con l’affermazione di Manfredi e Lepore. Discorso a parte per Milano, dove ha di nuovo stravinto un modello, quello sviluppista e ambientalista insieme, dell’indipendente Beppe Sala, che piace alla città-locomotiva del Paese. A conti fatti, comunque, sono espressione diretta del Pd i nuovi sindaci di Roma, Torino, Bologna, Napoli, Salerno, Caserta, Varese, Ravenna, Rimini, Carbonia.

Fa bene, perciò, il segretario dem Letta a cantare vittoria. Ma fa altrettanto bene a usare toni prudenti, consapevole che la strada verso quel «campo largo» del centrosinistra che ha in mente «non sarà una passeggiata». In generale, poi, c’è da sottolineare che molte vittorie sono conferme di sindaci uscenti o comunque di amministrazioni già guidate dal centrosinistra, come a Bologna, Latina (dove per altro l’uscente Damiano Coletta la scorsa volta aveva corso e vinto da ‘terzo incomodo’), Varese, Salerno, Caserta, Raven- na, Rimini. Il ‘ribaltone’ è riuscito soltanto a Cosenza, Isernia e Savona, strappate al centrodestra. I l bilancio del centrodestra non può certo dirsi soddisfacente, malgrado i calcoli un po’ arditi di Matteo Salvini (secondo il quale, contando anche i piccoli Comuni, la coalizione «ha più sindaci rispetto a due settimane fa») e le spiegazioni di Giorgia Meloni, che ammette la sconfitta ma accusa gli avversari di aver «demonizzato » la destra e di aver ignorato i grandi temi della campagna elettorale, trasformando quest’ultima «in una lotta nel fango», in particolare con la contrapposizione fasci- smo-antifascismo. In termini di risultati (detto di Benevento, dove Mastella ha rivinto con una serie di liste civiche), il centrodestra si conferma in quattro capoluoghi: Trieste, Pordenone, Novara e Grosseto.


Il centrodestra paga la debolezza di partenza dei nomi messi in campo, tardivamente, nelle grandi città. Il Movimento 5 stelle in una delicata fase di transizione Il Pd riflette sulle strategie per aggregare Gli slogan e i contrasti da «social» stanno avvelenando la convinzione che la politica sia innanzitutto la buona amministrazione


​E vince bene le elezioni regionali in Calabria con Roberto Occhiuto, candidato scelto non a caso da Forza Italia. L’impressione, infatti, è che buona parte del tradizionale elettorato di centrodestra sia rimasto a casa, alimentando il grande e preoccupante serbatoio del non-voto di cui diremo tra poco, forse perché non attratta da una coalizione di destracentro trainata da Lega e Fratelli d’Italia. In alcuni casi, pur andando a votare, gli elettori più moderati hanno preferito candidati ‘del fare’, come Calenda a Roma e Sala a Milano. A ciò si aggiunga la debolezza di partenza dei nomi messi in campo, per altro tardivamente, dal centrodestra nelle grandi città. La scelta è caduta alla fine su esponenti ‘civici’ per superare i veti incrociati che per diverso tempo hanno paralizzato le decisioni, se non che evidentemente si trattava di candidati non abbastanza conosciuti e radicati nei rispettivi tessuti cittadini.

Al contrario, non è sicuramente un caso se a Trieste Roberto Dipiazza sarà sindaco per la seconda volta consecutiva e per la quarta volta complessivamente. I nsomma, in questa parte del campo gli errori non sono mancati. Ma su una cosa Meloni e Salvini hanno sicuramente ragione da vendere: il crollo della partecipazione ha inciso in maniera importante sull’esito di queste elezioni amministrative. La media del 43,94% di affluenza ai ballottaggi è spaventosa e fa segnare un crollo di circa 9 punti rispetto al 52,67%, già fortemente in calo, del primo turno. Insomma, tra domenica e ieri si è recato a votare meno di un cittadino su due tra gli aventi diritto. Per le comunali, generalmente più sentite per ovvi motivi, è un record negativo. Ancora peggio della media è andata a Torino (42,13%, al primo turno 48,08%), a Trieste (42,18%, al primo turno 46,28) a Roma (addirittura 40,68%, al primo turno 48,54%).

Percentuali sulle quali tutti i partiti hanno il dovere di riflettere fin da subito, per capirne le ragioni e per cercare strade che riportino gli elettori alle urne. Perché una democrazia dove c’è una partecipazione al voto così bassa è una democrazia che attraversa una crisi. Tra le tesi circolanti c’è quella secondo cui il governo Draghi e la maggioranza larghissima che lo sostiene, pur tra diversi scossoni, ha demotivato e sfiduciato gli elettori più ‘identitari’. E di ciò avrebbe fatto le spese anche la principale forza di opposizione, Fdi, a causa delle candidature comuni con i ‘governisti’ di Forza Italia e Lega. È comprensibile, quindi, che Meloni chieda un chiarimento agli alleati perché l’elettorato «è disorientato » dalle diverse posizioni dei tre partiti su molti temi. Ma forse le radici di un astensionismo così macroscopico sono più profonde e non riguardano soltanto il centrodestra.

Il Movimento 5 stelle, per esempio, sta attraversando una delicata fase di transizione in cui dovrà decidere che cosa farà ‘da grande’, una fase in cui sta tra l’altro diventando più ‘piccolo’ in termini di consensi, come forse era inevitabile quando si è costretti a passare dalla sola protesta alla proposta. Quanto al centrosinistra, il Pd sembra ormai aver capito che da solo non basta a rappresentare tutte le istanze del centrosinistra. Dovrà quindi decidere come aggregare, facendo i conti anche con quell’area ‘centrale’ rappresentata da Azione, Italia Viva e da diverse esperienze sorte, a livello nazionale o territoriale, dal mondo cattolico. A nche tutti questi travagli si sono tradotti nella minima affluenza per la scelta dei sindaci, segno che ormai la politica fatta di slogan e contrapposizioni per lo più sterili da consumare nei 140 caratteri di un tweet o nello spazio di una diretta Facebook, sta avvelenando la convinzione che la politica sia innanzi tutto buona amministrazione e ricerca del bene comune.

da avvenire.it