“Due popoli, due Stati”. Burg (ex presidente Knesset): “Non esiste futuro fino a quando Israele userà pugno di ferro contro i palestinesi”

“Non esiste futuro fino a quando Israele userà il pugno di ferro contro i palestinesi, sottomessi, umiliati e disperati”. Ad affermarlo Avraham Burg, laburista, già presidente della Knesset (1999-2004), il parlamento israeliano, e presidente ad interim dello Stato di Israele. La formula “Due popoli, due Stati” poteva andare bene, forse, 20 anni fa ma oggi appare di difficile attuazione alla luce della frammentazione del territorio palestinese causata dagli insediamenti israeliani

“Se vivessimo con la legge biblica dell’occhio per occhio saremmo tutti ciechi. La sensazione è che stiamo vivendo una sorta di tempo biblico in cui l’obiettivo principale di una fazione è punire quella avversaria”. Nel 2002 in una delle sue interviste Avraham Burg citava il filosofo Martin Booberg per descrivere la situazione in Medio  Oriente e più in particolare il conflitto israelo-palestinese. All’epoca Burg, laburista, era il presidente della Knesset (1999-2004), il Parlamento israeliano, il primo ad essere nato in Israele dopo l’indipendenza del 1948. Dal 12 luglio al 1° agosto del 2000, era stato anche presidente ad interim dello Stato di Israele. Oggi Burg ha abbandonato la politica attiva e si dedica alla sua attività di scrittore. Nelle sue opere come “God is Back” (2006), “Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico” (2007), “The Holocaust Is Over: We Must Rise From its Ashes” (2008), “Here Come the Days” (2015), Burg affronta i temi della Shoah che, a suo avviso, ha reso Israele indifferente alle sofferenze altrui, del fallimento dell’ideologia sionista come anche della mentalità, per lui antica, del ghetto accerchiato. Sono tesi provocatorie che trovano un esempio concreto nell’occupazione militare israeliana, lunga oramai 50 anni.

Non esiste futuro fino a quando Israele userà il pugno di ferro contro i palestinesi, sottomessi, umiliati e disperati. Insomma, quella sensazione che si sta vivendo “una sorta di tempo biblico in cui l’obiettivo principale di una fazione è punire quella avversaria” oggi è diventata più attuale di prima. Concetti ribaditi anche nel corso di un incontro, il 17 gennaio, con il Coordinamento dei vescovi  per la Terra Santa, svoltosi nel centro ecumenico di Tantur (Betlemme). A margine dell’incontro il Sir lo ha incontrato.

Il 2017 segna 50 anni di occupazione militare israeliana dei Territori Palestinesi. Oltre a tante vittime, quale eredità lascia questo conflitto irrisolto al Medio Oriente e alla comunità internazionale?

Lascia una profonda divisione. Due popoli in collisione. Ognuno sostiene le proprie ragioni e posizioni. Se a guardare il conflitto è un israeliano parlerà di miracolo, se invece è un palestinese parlerà di catastrofe, di disastro. Miracolo contro disastro,  questa è la narrativa del conflitto. Occupanti contro occupati, forza contro debolezza, padroni contro schiavi. Purtroppo dal 1967 la situazione sul terreno è solo che peggiorata.

La comunità internazionale insiste sulla formula “Due popoli, due Stati” come soluzione al conflitto. È d’accordo?

Il problema non sono le formule ma le motivazioni e le capacità che si mettono in campo per arrivare all’obiettivo. In questi ultimi anni le motivazioni di molti Paesi della cosiddetta comunità internazionale sono svanite. Il caos del Medio Oriente, le guerre in Siria, in Iraq, in Libia e nello Yemen, hanno marginalizzato il conflitto israelo-palestinese. Circa le capacità, poi,

l’America era potente ma ha perso tempo con Obama, l’Europa è debole e non fa nulla.

Dunque non la ritiene più una soluzione praticabile?

La formula è bellissima, ma è retorica. Poteva andare bene 20 anni fa, anche se già allora era difficile. Ora è impossibile. La situazione sul terreno è enormemente cambiata. Il territorio palestinese è sempre più frammentato dalla crescita degli insediamenti israeliani, l’Autorità palestinese è divisa e corrotta.

Più passa il tempo, più si va verso qualche forma di regime unico, discriminatorio, oppressivo.

L’avvento di Trump alla presidenza degli Usa potrà rimettere in moto il cammino negoziale? Cosa si attende dal tycoon americano?

Cosa mi aspetto? Che gestisca la crisi del Medio Oriente via twitter (ride, ndr). Sarà irrilevante come Obama.

In questi giorni vescovi di Usa, Ue, Sud Africa e Canada, membri del Coordinamento dei vescovi per la Terra Santa, hanno visitato Gaza, Hebron e Betlemme per portare solidarietà e vicinanza ai cristiani locali e per conoscere la realtà dell’occupazione militare. Quale contributo possono offrire le Chiese alla soluzione del conflitto?

Innanzitutto possono alzare la voce della morale e scuotere le coscienze dei fedeli.

Dalle Chiese non mi aspetto la formulazione di soluzioni politiche ma che facciano crescere nei fedeli la coscienza e la consapevolezza della enorme gravità del conflitto. Solo così i popoli potranno fare pressione sui rispettivi governi

perché si impegnino a trovare una via di uscita al conflitto. La voce della coscienza  è importante e cruciale. È proprio nel momento più buio che può nascere un nuovo ottimismo.

In un Medio Oriente segnato da guerre e tensioni non possiamo dimenticare le persecuzioni cui è soggetta la minoranza cristiana. Dal momento che si dice che Israele sia l’unica democrazia mediorientale è plausibile che possa diventare anche  una sorta di enclave protetta (“safe haven”) dei cristiani?

Va detto che Israele è una buona democrazia, non perfetta, se la consideriamo all’interno della Linea Verde (il confine tra Palestina e Israele, tracciato dalle Nazioni Unite nel 1947, ndr.). Oltre la Linea, invece, non è democratico, in quanto occupa dei Territori. Detto questo, Israele è senza dubbio già un “safe haven” per i cristiani. Qui esistono tolleranza e libertà religiosa e di culto, garantite da un sistema di leggi e di ordine vigente. Ciò che si vede a Mosul, Aleppo, Istanbul, qui non potrà mai accadere.