Don Domenico: «il virus dell’individualismo infetta tutto»

Come sarei felice se non dovessi essere più felice”: ha parafrasato Woody Allen il vescovo Pompili durante il convegno internazionale “La famiglia: nucleo da preservare” svolto nel pomeriggio del 25 settembre nel salone Papale del Vescovado di Rieti.

È stato un modo per ragionare sulla lenta erosione della famiglia, in atto già dagli anni ‘50, ma che oggi «avvertiamo più chiaramente» nel «sintomo preoccupante» di una stanchezza diffusa. «Le generazioni passate non conoscevano l’uomo stanco, minacciato dallo stress e nell’impossibilità di trovare se stesso» ha sottolineato don Domenico. «Oggi viviamo in una società del disagio. Siamo stati stregati dall’idea che tutto è possibile e a portata di mano: yes, you can! Ma alla prova dei fatti, lo scarto tra l’ideale sognato e la realtà di sé, sviluppa frequentemente disincanto, noia, ansia da prestazione».

«Il lato oscuro di questa felicità che si pretende garantita in automatico è stata, senza accorgercene, proprio l’enfasi sull’autonomia» ha aggiunto il vescovo: «l’uomo di 100 anni fa diventava autonomo col tempo, attraverso un tragitto che prevedeva tappe e riti da passare per emanciparsi, non senza conoscere nevrosi di vario genere. L’uomo di oggi non conosce la nevrosi, ma la depressione. Appare, ancora lattante, dotato di ogni diritto, interessato al pari degli adulti solo a ciò che produce benessere, ma col tempo dovrà rendersi conto che certe conquiste della libertà hanno un costo. In ogni caso, che la vita è un cammino, con le sue lentezze, le sue devianze e i suoi passi perduti. Ma, soprattutto, che si va avanti solo se si entra in relazione con altro da sé, cioè se si fa esperienza di qualcun altro rispetto al proprio io».

Una condizione che don Domenico ha letto alla luce della Genesi: «Dio prende una costola dell’uomo e richiude la carne… Entrare in relazione presuppone così una perdita, qualcosa in meno. Solo se si intacca l’integrità, se si rompe l’uovo, si spezza il narcisismo originario. Questa esperienza di rottura, che non si produce senza uno choc, si chiama ‘alterità’. Ben lo sa il bambino che è preso da vertigini quando scopre che la mamma non è lui!»

Nella lettura del vescovo, «il tempo dell’individualismo, in cui siamo nati e cresciuti, ha lentamente eroso il senso dell’altro, anzi ha instillato l’idea che si diventa individuo nella misura in cui ci si allontana dal collettivo e ci si divincola da qualsiasi legame. Un’entità autonoma, autosufficiente, indipendente: questo sarebbe l’ideale, il sogno da inseguire. Ma la realtà non è così. Solo grazie all’alterità si costruisce l’identità di una persona e questo lavoro che si avvia dai primissimi anni è ciò che consente di ospitare in se stessi un luogo per l’altro».

Ad emergere è una visione dell’individualismo che «infetta tutto», mettendo al mondo relazioni malate, «tascabili», nelle quali «gli scambi sono segnati dall’intensità, dalla spontaneità e dalla brevità, mentre va evitato il rischio della profondità e della durata» e non sono accettabili «vincoli» o «restrizioni di sorta».

«Sin da piccoli – ha rilevato mons. Pompili – ci si convince che occorre passare il meno possibile attraverso l’altro e, al contrario, imparare a farne a meno, per diventare se stesso. Self made man, artefici di se stesso! Non sorprende poi che allevati a questa presunta autosufficienza si rischi nel concreto o la dipendenza affettiva o la fobia sociale che sono le due facce della stessa medaglia. E cioè la mancanza dell’altro che evita il confronto e lo scontro per abbandonarsi all’isolamento e alla tristezza. Per altro la tecnologia digitale rischia di essere, suo malgrado, una potente alleata di questi rapporti protetti, a distanza. Il cellulare è solo un piccolo oggetto tascabile, ma anche una potente apertura sul mondo. Il rischio è che si privilegiano le connessioni, ma si evitano le relazioni».