Diventiamo città?

Prendo spunto dalle interessanti parole di Massimo Casciani pubblicate di recente su «Frontiera», per cercare di approfondire la riflessione cui egli accenna con toni gentili, nel tentativo di intrecciare a mio modo, il senso della “novella” disegnata dalla lectio magistalis del filosofo Massimo Cacciari e la scommessa amministrativa cui è chiamata a rispondere la politica locale.

Senza pretendere di dare valore filosofico alcuno alle mie riflessioni, vorrei al contrario prendere in prestito solo il pregevole spunto dell’autore dell’articolo, per chiarire il motivo per cui credo sia ancora possibile e necessario “diventare città”.

Il debito e le difficoltà economiche che dobbiamo superare come amministratori, ma anche e soprattutto come cittadini, ci inchiodano a scelte difficili. E forse è proprio la radicalità della scelta e la sua necessità il punto di intersezione più evidente con la lettura di Francesco il santo delineata dal filosofo. Mai sentirsi giunti sul luogo della verità: mai sentirsi “a casa”, ma al contrario intraprendere quel cammino duro che conduce sempre nella prossimità della verità, della casa, della città. Un cammino radicale volto all’accoglienza, verso quel luogo in cui il centro è ovunque e ovunque è la periferia.

E bisogna anche sbrigarsi. È necessario correre e farlo cantando a costo di sembrare anche giullari. Se a cantare poi non saranno i seguaci, allora forse saranno gli angeli. È chi sono gli angeli, nel nostro caso, se non i nostri figli – immagine del nostro futuro – che non conoscono ancora il disincanto della realtà, tutt’altro che celeste, in cui sono/siamo immersi?

Il loro solo esserci e la loro necessaria speranza nel futuro indicheranno le note del canto da seguire. A loro bisogna restituire ogni possibilità, anche a costo di difficili scelte. Dunque entriamo nel pentagramma del cammino da compiere e cominciamo a commentarne i toni.

Le domande che noi amministratori locali in questi giorni di bilancio ci stiamo ponendo, si riassumono in breve: può questa casa di tutti sostenere il peso di uscite economiche tanto grandi? Ci sono in laboratorio scenari progettuali che, nonostante i dovuti tagli evidenti alla spesa, possano riequilibrare e permettere ritorni in termini di soddisfazione sociale?

Io credo che la marginalità della contrapposizione, posta tra volontà di gestione pubblica o gestione privata di un servizio, nel punto in cui ci siamo ritrovati gettati, non sia sufficiente a innescare confronti produttivi tra amministratori e cittadini in cammino verso un dovuto quanto necessario cambiamento della città. Questo soprattutto se si assume come assodato e presupposto il pericoloso punto di partenza.

Nel quadro attuale a mio avviso, risulta debole la banale scelta di appartenenza ad una giusta patria di identità politica, perché sufficiente a malapena a giustificare o meno la propria credibilità elettorale, ma insipiente rispetto alla ruvidità delle domande e delle sfide in essere. Piuttosto ritengo maggiormente dignitoso esprimere la propria radicalità, soffermandosi sulla certa volontà di percorrere il cammino fino in fondo per tentare di avvicinarsi alla mèta: non saremo certamente noi ad abitarla, ma, forse – e se ne saremo veramente capaci – i nostri figli.

È necessario scegliere il futuro economico di un Ente e non chiarire chi è più di sinistra. Dare in convenzione un asilo nido significa riportare all’interno di un contratto pubblico/privato un servizio che oggi risulta esternalizzato di fatto, in quanto articolato da un appalto, regolato dal diritto privato, con un soggetto (una cooperativa) che oggi costa alla città 1,2 milioni di euro l’anno. Un movimento, anche se impercettibile, da destra verso sinistra e non viceversa, se proprio vogliamo dirla tutta.

Detto ciò, risulta evidente che se un Comune ne avesse le possibilità, la scelta giusta, secondo la mia sensibilità, sarebbe la gestione diretta di tutti i servizi. Il punto è che non ne esistono i presupposti.

Analoghe considerazioni valgono per una casa di riposo che dovrebbe ospitare, per norma, solo soggetti autosufficienti, ma che in verità oggi assiste, nella quota del 50% circa, anziani non autosufficienti, destinati, sempre per norma, ad altre strutture.

Eppure nonostante queste considerazioni, di un’ovvietà quasi disarmante, resta sempre l’amaro in bocca. Perché? Dove nasce l’ulteriore disincanto che ritorna a Palazzo dai vicoli della città? Questa perdita di capacità del Comune di Rieti – certamente dovuta a chi ha gestito male le risorse quando c’erano – può avere un fondo oppure è destinata a procedere all’infinito?

E poi la seconda risposta, la più insidiosa, che questa Amministrazione è tenuta a dare mentre chiede sacrifici: su quali reti di possibilità di riscatto si può giustificare e transita la radicalità di eventuali rinunce?

Forse il confronto e le critiche sarebbero più efficaci se si puntasse l’indice su tale interrogativo. Infatti, forse, troppo fragili sono apparse le tracce fino ad ora segnate. Frammentate. Discorsi che sono stati appresi più come balbettii impotenti a questioni nate anch’esse lontano, che come proposte realmente volute e fortemente praticate. Poco si è creduto a scenari di inversione di tragitto, di inclusione delle energie esterne, e poco si è creduto al vero cambiamento. Poca lungimiranza dunque traspare agli occhi dei più e poco rispetto di quel patto che avevamo giurato di intraprendere sembra essere stato rispettato: un cammino libero per “diventare città”.

“Diventare”, appunto: non esserlo già. E proprio per fedeltà a questo cammino, a questa immagine che costringe inevitabilmente all’accoglienza dell’altro da sé, allo svuotamento delle proprie certezze, che richiamo, forse solitario, nel mio piccolo e a mio modo, la Giunta ed il Consiglio a maggiore unità e concretezza, e soprattutto ad aprirsi più alle voci della città piuttosto che alle riflessioni di partito.

Ora per la durezza delle scelte che siamo chiamati a compiere è inevitabile cominciare a dimostrarlo. Pena il de-lirio che, permettetemi il sofismo, significa proprio allontanarsi dal canto e dalle dolci note della lira che soleva accompagnare ogni simposio dell’antica Grecia.

Non basta andare al teatro a seguire lezioni di grandi maestri, bisogna innanzitutto comprenderle e mostrare di averle comprese. In un’intervista tempo fa Massimo Cacciari ha dichiarato: «Destra e sinistra sono soltanto delle connotazioni geografiche. Fare politica oggi significa rispondere con responsabilità alle questioni che si pongono nella realtà». E Cacciari, come dico da tempo, scherzando ma non troppo, ha sempre ragione.

One thought on “Diventiamo città?”

  1. Anna Mariantoni

    I servizi pubblici richiedono una gestione diretta dell’Ente locale con personale assunto con concorsi pubblici e non con esternalizzazioni o Coop. Che aggirano il disposto costituzionale per le assunzioni, ricorrendo a criteri discrezionali a danno di molti giovani cittadini. Le risorse si trovano e si usano bene invece di sprecarle !!!!!!!

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