Disoccupazione creativa

La celebrazione del Primo maggio ha sempre più il sapore di una stanca liturgia e sempre meno quello di una festa del popolo e dei lavoratori.

Una festa un po’ sui generis, quella del 1° maggio, perché il festeggiato è, di fatto, il grande assente. Il lavoro infatti manca, e non solo nei numeri. Viviamo l’epoca di una inarrestabile crescita della disoccupazione, è vero. In questo la nostra città è in prima fila e da tempo la situazione ha superato la soglia di allarme. Ma la malattia è più complessa: a mancare è innanzi tutto il positivo significare del lavoro, il suo essere condizione indispensabile affinché una società si possa dire veramente umana. Una prospettiva in cui la semplice occupazione, pur offrendo un certo sollievo, non basta. Non rende giustizia alla natura di ciò che ci si sarebbe dovuto festeggiare, al lavoro come fondamento della società.

Intendiamoci: dal grande palco di piazza Cesare Battisti, i vertici di CGIL, CISL e UIL hanno sostenuto bene la propria parte. Hanno difeso con chiarezza il binomio “lavoro – crescita” quale essenziale rimedio alla “crisi”. Implicito, nelle loro parole, il desiderio di una nuova – quanto improbabile – industrializzazione. Tutto secondo gli schemi, ma proprio per questo si ha l’impressione che i sindacati non sappiano concepire il lavoro al di là di certe dinamiche. Eppure un tema così decisivo non può essere dato per scontato. Altrimenti l’opposizione di crisi e crescita prende il sapore di un semplice diversivo e dietro certe posizioni si finisce per sospettare l’incapacità di offrire nuove prospettive alle generazioni.

Anche la stessa “crisi”, in fondo, è stata letta in modo piuttosto restrittivo. La situazione presente richiederebbe invece una riflessione di più ampio respiro e la voglia di scalare la montagna dei problemi scegliendo pareti poco usate.

Seguendo certe intuizioni del pensatore austriaco Ivan Illich (1926-2002) ad esempio, ci accorgeremmo che di lavoro da fare ce ne sarebbe per tutti. Il problema è saperlo riconoscere e difendere. Con le sue ricerche, Illich ha mostrato come il campo del lavoro si restringa nella misura in cui l’uomo viene sostituito dalle merci.

La contrazione della disponibilità di lavoro, cioè, non deriverebbe tanto dalla crisi economica, quanto dalla conversione di ogni aspetto dell’esistenza in qualcosa che può essere comprato e venduto. La capacità del cittadino di far fronte ai propri bisogni si è sostanzialmente tradotta nella capacità del sistema economico di rifornirlo del proprio prodotto. Questa impostazione elimina le condizioni che danno dignità ad attività non inquadrabili in una ‘occupazione’ salariata. Nella nostra cultura, del resto, l’atto di produrre da sé il proprio cibo o la propria energia non è considerato un lavoro, nonostante la gioia, la soddisfazione e i vantaggi che ne derivano.

Attitudini e attività un tempo diffuse e capaci di riempire di significato la vita, sono come requisite, sottratte all’abilità dei singoli e rese monopoli di ristrette figure professionali. Il lavoro da svolgere diminuisce progressivamente perché, pensato come merce sul mercato, può esistere validamente solo in regime di scarsità.

La scelta di prendere l’economia quale orizzonte esistenziale ha portato a maturazione sistemi di produzione asfittici e castranti. Oggi come sempre lavorare vuol dire produrre pane, istruzione, case, movimento, oggetti, cura: non sono bisogni estinti! A mancare è piuttosto è l’idea che si possano soddisfare al di fuori degli schemi del mercato.

Per questo ci sarebbe piaciuto un sindacato che avesse messo sul piatto l’idea che la crisi può costituire l’opportunità di una scelta diversa. Sarebbe interessante se le organizzazioni dei lavoratori spingessero gli individui ad interessarsi di certe contraddizioni della società contemporanea. Uno sforzo collettivo di consapevolezza potrebbe essere il primo passo verso una vita differente, basata su valori conviviali piuttosto che mercantili.

Magari non si troverebbero in questo tutte le soluzioni, ma visto come sono andate le cose fin’ora, si potrebbe almeno tentare.