In Feltrinelli: “Discorso sul Metodo” di Cartesio

“Mi accorsi immediatamente però che, mentre pretendevo di pensare che tutto fosse falso, bisognava necessariamente che io, che pensavo in tal modo, fossi qualcosa”.
È il momento fatale, dopo il quale nulla sarà come prima. Cartesio, in realtà René Descartes (1596-1650) sta per arrivare alla frase che lo consegnerà all’immaginario collettivo, quel celebre “Io penso, dunque sono” della quarta parte del suo “Discorso sul Metodo”, opera della seconda metà degli anni Trenta del Seicento ora riproposta con un accurato apparato di note e con saggi esplicativi (Feltrinelli, 185 pagine con testo originale francese in appendice). Il sottotitolo in italiano suona come una ulteriore esplicazione, fatta “per dirigere bene la propria ragione e cercare la verità nelle scienze”: Cartesio parte infatti non tanto da considerazioni filosofiche e teologiche, ma anche dalla matematica, dalla fisica, dalla scienza. Cerca di unificare il sapere, tenta la temeraria dimostrazione di due cose: la prima è che la realtà esiste e non è un inganno dei sensi (Schopenhauer avrà molto da ridire due secoli dopo) e che soprattutto Dio non è un’invenzione di preti e popoli barbari, ma una realtà di fatto anche se incomprensibile all’uomo. Da far girare la testa ancora oggi, e infatti rileggere questa opera capitale nel terzo millennio pone inquiete domande sull’esistenza. Abbiamo detto di Schopenhauer, il filosofo che tutto sommato ha tradotto nella filosofia occidentale l’idea che la realtà materiale non esista e sia solo un inganno per costringerci a perpetrare le specie. La Volontà è, secondo la sua ottica, il trucco più infido di questa maschera, perché ci spinge a volere, sempre volere, anche quando non abbiamo bisogno di nulla. Ebbene, se fosse nato dopo il filosofo tedesco, Cartesio avrebbe opposto che il solo fatto di pensarmi fa di me un vivente reale. In qualche modo il francese precede le obiezioni del grande pessimista germanico ma nel contempo, stavolta guardando al passato, attacca una certa tendenza, tornata in auge nel Rinascimento, a concepire tutto l’universo come grande anima e con gradazioni più o meno originali nella presenza di questo spirito in ogni creatura e perfino nelle cose. Cartesio inizia la grande stagione della apparente separazione tra res extensa e res cogitans, tra materia e pensiero. Lui lo sa che questa radicale presa di coscienza potrebbe essere letta in modo radicale, e accortamente avverte: “Approfitto dell’occasione per pregare qui i posteri di non credere mai che le cose che verranno loro riferite provengano da me, se non le avrò rese pubbliche io stesso”, il che è, a ben vedere, una modernissima avvertenza a non fidarsi troppo dei giudizi a posteriori e di leggere sempre le opere originali. E ha ragione, perché in realtà il mistero della creazione pone un enigma; da una parte l’anima “non la si può in alcun modo far derivare dalla potenza della materia”, ma nello stesso tempo “è necessario che essa sia congiunta e unita più strettamente col corpo per poter avere, oltre a ciò, sentimenti e appetiti simili ai nostri, e in tal modo costituire un uomo reale”. In poche parole, l’anima non è materiale, perché “è di natura completamente indipendente dal corpo” e perciò non destinata a morire con esso, ma interagisce in qualche modo con quella realtà fisica per permetterne la vita nel qui e nell’ora.
Come si vede, il timore di essere “letto” e interpretato al di là delle sue parole, anzi che lo si commentasse senza averlo mai realmente letto, non era infondato: è vero che l’anima è diversa dal corpo e gli sopravvive, ma nello stesso tempo, essa partecipa ad una realtà che non è un inganno di un dio del male, ma un cammino verso la scelta del bene. Perché, aggiunge il grande pensatore, un Dio del bene non potrà mai ingannare le sue creature.