Dipendenze: la volontà è un muscolo che va allenato sempre

Terzo appuntamento con gli operatori della Comunità Emmanuel. E per capire attraverso quale percorso si arriva a questo genere di esperienza abbiamo chiesto aiuto alla dott.ssa Lucia Antonelli

La dott.ssa Lucia Antonelli ci accompagna nel terzo appuntamento con gli operatori della Comunità Emmanuel

Come sei arrivata a lavorare in comunità e qual è il tuo ruolo oggi?
Io sono arrivata a lavorare in comunità nel lontano 2007. Da operatrice dell’Informagiovani ho partecipato a un progetto con Comune, Comunità Emmanuel, Sert e Asl, progetto di prevenzione del disagio giovanile attraverso i centri giovanili. Ho iniziato così a collaborare con una forma di volontariato, visto che non avevo esperienza con le tossicodipendenze. Oggi sono sociologa counselor e mi occupo in particolare di un gruppo finalizzato all’espressione delle emozioni e alla consapevolezza di sé attraverso laboratori creativi (disegni, musica, ecc.). Inoltre svolgo attività amministrative, di progettazione e aiuto agli utenti con colloqui di sostegno.

Chi può venire in comunità?
Bisogna innanzitutto passare attraverso il Sert di competenza del territorio, che certifica la tossicodipendenza e indirizza alla struttura. Può essere anche l’utente stesso a fare richiesta per una struttura in particolare. La comunità si occupa di ogni tipo di dipendenza, non solo tossicodipendenze.

Possono gli utenti rivolgersi direttamente a voi?
Possono rivolgersi direttamente. Noi facciamo un colloquio preliminare per capire chi abbiamo di fronte. Però la procedura amministrativa implica in ogni caso il passaggio al Sert per farsi rilasciare un certificato di tossicodipendenza. Questo serve perché il ticket, la “retta” per stare in comunità, viene erogata dalla Regione al Sert e da questo a noi.

E invece il rapporto con altre istituzioni?
C’è una sorta di collaborazione con i servizi sociali, che si sta intensificando. Spesso arrivano persone che, oltre alla problematica di tossicodipendenza, hanno anche uno stato di bisogno sociale. Quindi casi più complessi.

L’obiettivo della vita in comunità è, allora, un reinserimento sociale o la cura di un disturbo psicologico?
Tutte e due. La cura del disturbo non prescinde da un reinserimento sociale. La cura del disturbo può essere concepita come presa di coscienza del problema che si ha e di come si ripercuote nelle relazioni, ma per essere completa questo si deve trasformare in un nuovo reinserimento sociale, passando per un reinserimento lavorativo che fa da volano.

Quindi integrazione.
Sì. E il problema è che, vista la recente situazione economica, riuscire a trovare un’occupazione per chi non ha una professione vera e propria diventa difficile. La maggior parte degli utenti non ha una professione.

Cosa consiglieresti a chi, consapevole di una propria difficoltà, resta indeciso sull’opportunità di rivolgersi a voi?
Di solito gli utenti non accettano consigli. Bisogna dire che il percorso da statuto prevede una durata di 24 mesi. Chiaramente dicono «Io 24 mesi non li voglio fare». Il consiglio è: «Intanto stai, vedi come ti trovi, prendi confidenza con il tipo di attività e poi diamoci obiettivi più a breve termine». Per affrontare un problema così grande, se si vede tutto insieme dici «No, è troppo, non ce la faccio». Quindi prenderne un pezzo per volta è sicuramente la soluzione più efficace per dare una motivazione iniziale per portare a un cambiamento effettivo. Anni di tossicodipendenza sulle spalle non si possono risolvere in un colpo.

Per concludere, sulla base della tua esperienza la vita in comunità cambia davvero gli utenti?
Sì, e non basta. Per un cambiamento profondo deve innanzitutto essere auspicabile la presenza di un contesto intorno, come quello familiare, perché la dipendenza è una malattia “sistemico- familiare”. Se c’è una famiglia e non avviene un cambiamento in quell’ambito, è più complicato che il cambiamento avvenga nella persona. E poi, soprattutto, il tempo serve. Per creare un cambiamento effettivo e duraturo non basta solo il percorso in comunità, ma bisognerebbe poi proseguire anche in maniera individuale e costante. Questa è una cosa che non tutti fanno e molto spesso, quando un utente interrompe prima, al di là del tempo effettivo, è difficile che il cambiamento sia stato completo e che venga mantenuto.

Quindi il cambiamento c’è, ma va supportato.
Non abbiamo la bacchetta magica. Alla fine entra in gioco anche la volontà dell’utente, un muscolo che va continuamente allenato.