Dietro uno scemo c’è sempre un villaggio

Ad un primo sguardo sembrava solo una un’idea eccentrica. Infatti lo è. Però la proposta di «Frontiera» di dedicare una via a Paolo Onito ha ottenuto una certa risonanza.

Più d’uno ne ha parlato: è segno che nel bene o nel male l’articolo è andato a toccare un nervo scoperto, una sensibilità rimasta ai margini senza andare perduta. Sul sito di «Frontiera» i clic continuano ad arrivare a centinaia, anche grazie alle condivisioni sui social network che non smettono di crescere. E con i clic arrivano anche domande di chiarimento sulla proposta.

Come vi è venuta in mente un’idea del genere?

Eravamo incuriositi dalla frequenza delle intitolazioni, e non solo delle strade. L’ultima, ad esempio, è del canile. Non c’è niente di male, ma ci siamo domandati a quale necessità corrisponda e perché queste proposte raccolgano un consenso abbastanza ampio.

E allora?

Forse c’è come un bisogno di coordinate. In fondo i nomi delle vie hanno la funzione pratica di dare punti di riferimento. E di questi il presente cittadino sembra assai povero. Di conseguenza si esalta il passato prossimo. Può andar bene, ma come si procede? Perché un nome sì e un altro no? Le scelte dovrebbero essere ben ponderate.

In qualche caso non è accaduto?

Non diciamo questo. Piuttosto ci siamo accorti che i nomi e le proposte hanno un tratto comune: sono tutte persone che hanno “vissuto bene”.

Non bisogna dare il buon esempio?

Il fatto è che le strade sono di tutti. Forse certe scelte hanno implicita l’idea che nelle nostre strade gli sfortunati, i deboli, i perdenti non abbiano diritto di cittadinanza. Ci è venuto il dubbio di assistere ad una involontaria “didattica dell’esclusione” per via toponomastica. Fosse davvero così, la cosa sarebbe discutibile nel metodo e nel merito. I nomi delle strade debbono senza dubbio “insegnare”, ma per dare conto dell’identità dei luoghi e per fare i conti con la memoria.

E che c’entra il povero Onito?

Verrebbe da rispondere che dietro ad uno scemo c’è sempre un villaggio. Forse è per questo in tanti se lo ricordano ancora. La sua presenza ha permeato l’immaginario comune. In fondo è stato un “uomo pubblico” più di molti altri. La sua storia la conoscevano tutti. Paolo il matto è stato parte dell’organismo vivente della città: la sua morte violenta ha lasciato qualcosa di irrisolto, quasi come un’amputazione. Forse abbiamo un debito di giustizia con quest’uomo. Per quello che ha dovuto subire, per la croce che ha dovuto portare.

Sull’onda della proposta qualcuno ha cominciato a tirare fuori altri nomi di reatini: erano popolari, ma hanno vissuto ai margini della città…

Ritorna la domanda di prima: perché a uno sì e all’altro no? Le proposte dovrebbero avere la massima profondità possibile. La storia di Onito, tra le altre cose, apre ad una riflessione sull’istituto dei manicomi, riporta lo sguardo su un omicidio “pasoliniano”, rimette nel dibattito il tema della diversità, dell’infanzia violata, della malattia personale e sociale. Ma ha anche il tratto dolce e popolare del “fratello di Sant’Antonio”. È una storia di emarginazione che in qualche modo può rappresentare tutte le altre. E poi nel 2014 ricorrono i 30 anni dalla sua morte. Sembra l’anniversario giusto per fare i conti anche con quel passato.

L’idea ha suscitato anche la profonda contrarietà di alcuni, secondo i quali si andrebbe sostanzialmente a celebrare un maniaco, pederasta e stalker…

L’avversione di alcune persone è assolutamente comprensibile. Ma non pensavamo certo a celebrare la figura di un maniaco. Anche perché la proposta cerca proprio di contestare l’uso celebrativo della toponomastica. Via Paolo Onito sarebbe piuttosto un invito a fermarsi e riflettere sulle condizioni che hanno prodotto quelle deviazioni, quella sofferenza, quella emarginazione “istituzionalizzata”. Sarebbe un gesto di pietà verso un uomo sfortunato, ma anche una domanda sul nostro presente.

Perché?

Perché dovremmo chiederci dove sono i “Paolo il matto” di oggi. Di personaggi così sulle strade non se ne vedono più. Vuol dire che abbiamo vinto l’emarginazione, la solitudine e la malattia, o che abbiamo inventato nuovi manicomi, più sottili e sfuggenti, in cui nasconderla? Forse la risposta a questa domanda non è né scontata, né piacevole, ed è anche questo che dà sgomento.

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