L'ultimo saluto

Diacono Silvano, il «servo inutile» che amava la pittura

È venuto a mancare all’affetto dei suoi cari il diacono Silvano Silvani. Apprezzato pittore, è stato per molti anni impegnato nelle attività della Caritas diocesana e nel servizio presso la parrocchia di San Francesco Nuovo

«Il Figlio dell’uomo è venuto per servire non per essere servito». Nella sterminata sapienza divina dei passi evangelici forse, fra tutti, proprio quello tratto dal capitolo 10 del vangelo di Marco racchiude la vita di Silvano Silvani, spentosi lo scorso 24 luglio (ad ottobre avrebbe compiuto 86 anni) dopo un malattia durata alcuni mesi e che, per la Chiesa reatina tutta, era semplicemente “diacono Silvano”. Una Parola – quella di Dio – che ben conosceva, Silvano, per averla scrutata in lungo ed in largo per quasi 50 anni: dalla “torah” del Pentateuco alla sapienza misteriosa dell’Apocalisse, senza eccezione di sorta. E così, dall’incontro meravigliosamente sconvolgente con il Kérigma – portato, su richiesta del parroco don Giovanni Franchi, nella parrocchia reatina di San Francesco Nuovo nel lontano 1974 dall’équipe dei catechisti del Cammino Neocatecumenale della parrocchia Santi Martiri Canadesi di Roma guidati da Giampiero Donnini – il “servire” era stato al centro della vita di Silvano. Senza eccezioni. Senza tentennamenti.

Nato ad Urbino, ma con forte legame a Passignano sul Trasimeno, diacono Silvano – rimasto assai presto orfano del padre terreno Luigi – aveva incontrato il Padre, quello Celeste, percorrendo fiducioso le orme di Suo Figlio Gesù. Immediato fu l’abbraccio – nei garage di Piazza Tevere dove si tenevano le catechesi iniziali oggi consacrate negli “Statuta” del Cammino approvati da Santa Romana Chiesa l’11 maggio 2008 – di quell’annuncio, del Kérigma, appunto (il Primo Annuncio, come lo definisce papa Francesco), che tuonava forte in quegli angusti locali nella voce di Donnini e di Alberto Scicchitano, psichiatra dalla tempra evangelizzatrice di straordinario slancio, anche lui salito al Padre solo poco tempo orsono. «Dio ti ama!» – annunciavano – «ed in suo Figlio Gesù Cristo ha vinto la morte ed egli, costituito Spirito che dà vita, vuole che anche noi risorgiamo con lui dal peccato e dalle nostre morti quotidiane!».

Accolse con gioia quell’invito che aveva cambiato la storia, nell’occasione rilanciato grazie all’ispirazione rivolta dalla Vergine Maria al pittore (anche lui, toh!) madrileno Kiko Argüello che lo incalzava sulla necessità, grazie al rinnovamento del concilio Vaticano II, a «fare comunità cristiane come la Sacra Famiglia di Nazareth, che vivano in umiltà, semplicità e lode e dove l’altro è Cristo». E così, insieme agli storici iniziatori del Cammino a Rieti come Gilberto Aleandri, Alessandro Dell’Uomo D’Arme, Nicolino Chinzari, Flavio Fiorentini e con loro tanti altri, sotto la guida pastorale di don Giovanni, quella piccola comunità nacque davvero! E da essa frutti di grazia immensi sgorgarono come fiumi: per la diocesi, allora guidata da mons. Dino Trabalzini; per le parrocchie che accolsero il cammino; per le loro famiglie.

Il Servizio, dunque: anzitutto dell’adorata sposa Maria Aurelia Marconicchio – conosciuta grazie al comune insegnamento nella scuola – figlia dell’indimenticato Giovanni, giornalista e musicista (autore delle musiche più belle delle  commedie vernacolari di Pier Luigi Mariani). Poi dei figli, Luigi e Giovanni e, quindi, della piccola Maria – la “figlia della promessa”, come amava definire – nata sull’invito ad abbandonarsi a Dio e ad aprirsi alla vita. Quindi, un servizio ininterrotto e senza limiti per la sua parrocchia e per il suo parroco, innanzitutto quale catechista nelle équipe del Cammino che per decenni hanno evangelizzato la città e molti paesi del reatino. Poi, come membro attivo della sua comunità, al servizio dei suoi fratelli che così tanto amava e di cui a lungo, in alternanza con Gilberto Aleandri, fu responsabile ed umile servitore. Attivissimo anche con i giovani insieme alla sua sposa, diacono Silvano accompagnò tanti ragazzi ai primi pellegrinaggi organizzati in occasione delle Giornate Mondiali della Gioventù volute da San Giovanni Paolo II. Memorabile quello a Czestochowa nel 1991 e poi quello del 1993 a Denver. Impegnato a lungo anche come catechista della cresima sempre a San Francesco Nuovo assieme a Maria Aurelia, sotto l’episcopato di mons Delio Lucarelli ed ancora con la guida di don Giovanni Franchi, fu naturale per Silvano abbracciare nel 2004 il cammino del diaconato permanente. Quello, appunto, del servizio per eccellenza: diacono, dal tardo latino diaconus ed, ancor prima dal greco διάκονος che significa, difatti, servitore. Un servizio cui si aggiunse – con il talento artistico che lo contraddistingueva – il suo impegno in Caritas dove fu chiamato a dar vita a “Recuperandia”, servizio ancor oggi attivo in piazza Oberdan e volto a ridar vita ad oggetti (soprattutto in legno) spesso abbandonati o danneggiati e messi a disposizione dei più bisognosi.

Il talento artistico, già! Silvano era un eccellente pittore e le sue acqueforti – tra le altre opere (Silvano amava l’incisione calcografica) – raffiguranti, in particolare, i paesaggi cittadini per cui aveva una particolare predilezione, arredano oggi molte abitazioni dei reatini. I primi di novembre del 2020, poi, in piena emergenza Covid, il malore che lo ha segnato facendogli ripercorrere – amorevolmente accudito ed assistito in questi mesi da figli, nuore, genero e nipoti – quella Passione del Suo Signore che tante volte aveva celebrato nel triduo pasquale. Oggi, con l’Exsultet della solenne veglia di Pasqua, diacono Silvano esulta finalmente di gioia innanzi a quel Signore che per tanti anni, nei fratelli, ha a lungo ed umilmente servito e così, certo, esclamando con Luca: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».