Di Paolo sul Premio letterario: rende la cultura un percorso condiviso

Diego Di Paolo

Rispondo con piacere allo stimolo offerto dall’articolo “Cultura in città: a che serve il premio letterario?” comparso sull’ultimo numero di «Frontiera». Pone alcune interessanti riflessioni su Cultura e dintorni.

«Con la cultura non si mangia», l’ormai famosissima frase di un ex-ministro, ha avuto dal mio punto di vista due drammatiche colpe: quella di essere un’enorme imbecillità, e quella di aver scatenato un dibattito a volte distorto che ha poi modificato in modo grave il significato percepito di cultura.

Il tema dell’industria della Cultura viene proposto ormai frequentemente alla ribalta dei dibattiti nazionali; la cultura è stata così bistrattata per tanti anni, in questo Paese, che come spesso accade se ne parla adesso anche troppo. E se ne parla in modo esasperato come attività che deve portare beneficio economico, facendo dimenticare a molti che la cultura è anche altro.

La cultura dal mio punto di vista è crescita, la cultura è riflessione, la cultura è maturazione, è consapevolezza, è piacere, è assaporare momenti unici, intimi o condivisi, ma sempre appaganti; che poi tutto ciò possa essere gestito in modo che porti anche benefici economici è certo, ma non possiamo trasformare tout court le politiche culturali in pianificazioni industriali.

Certo è che un popolo culturalmente depresso non cresce neanche dal punto di vista economico, ma insistere su una visione univoca di cultura come attività produttiva non ci porterà lontano.

La nostra città soffre di uno storico gap culturale , che negli ultimi anni ha visto un recupero importante in termini di strutture (teatro, biblioteca, musei), in termini di fermento e di rinascita d’interesse; certamente non tutti lo abbiamo inteso e interpretato con le stesse chiavi di lettura, ma sfido chiunque a dire che lo sforzo e la passione messi in campo non abbiano prodotti risultati importanti.

Si potevano forse organizzare le prime edizioni del Reate Festival in altro modo e con altra attenzione al budget, con un approccio più solido e con meno sfarzo, ma non dispiace affatto aver avuta l’opportunità di ospitarlo a Rieti: dal mio punto di vista può essere una discussione di metodo ma non di merito. Una gestione più oculata ed un management più attento hanno di fatto modificato sostanzialmente l’atteggiamento della città nei confronti del Festival. Si può fare meglio? Forse sì, ma così è già tanto meglio di come è stato.

E veniamo al Premio Letterario, che è di fatto il vero obiettivo dell’articolo. Confesso che ho avute molte perplessità su questa manifestazione quando ho iniziato il mandato: poco mi convincevano la leziosità di alcune situazioni, le polemiche sulla composizione della giuria, le letture teatrali dei brani delle opere; ma non mi piace giudicare in base a preconcetti senza conoscere più a fondo le problematiche e quindi mi sono convinto senza fatica ad attendere di vederne un’edizione completa prima di giudicare.

Devo dire che, a bilancio della V edizione (la mia prima edizione da assessore, ma non da organizzatore in quanto il lavoro era stato praticamente completato), mi è apparsa ottima la scelta degli autori, mi è piaciuta l’idea della giuria popolare, mi è piaciuta l’atmosfera di cultura vissuta e condivisa, mi è piaciuta l’intimità di alcuni incontri, mi è piaciuto moltissimo il fatto che né Franceschini nel 2012, né Verdone nel 2013, abbiano vinto, a testimonianza della serietà della scelta autenticamente letteraria della giuria.

E quindi ci apprestiamo al varo della sesta edizione, in merito alla quale ho potuto prendere delle decisioni ragionate, e che sarà in qualche modo diversa dalla precedente.

Rimangono cinque i concorrenti, tutti di ottimo livello. I giurati non sono stati scelti, ma estratti a sorte in sorteggio pubblico al quale sono stati tutti invitati: cento i fortunati estratti su centottanta candidati.

Alla classica giuria vanno ad aggiungersi venticinque studenti, che a rotazione negli anni proverranno da tutti gli istituti superiori della Città. Ai venticinque studenti-giurati si aggiungeranno altri studenti del penultimo anno che a turno “adotteranno un libro”.

Abbiamo deciso di sostituire, anche su suggerimento di alcuni degli autori degli anni passati, la lettura di brani delle opere da parte dell’ottima Carla Todero, con una lettura effettuata dagli autori stessi. Abbiamo mantenuto il livello qualitativo a fronte di una sensibile riduzione dei costi. E partiamo con la sesta edizione.

È vero che poca è stata la visibilità a livello nazionale delle precedenti edizioni, ma proveremo a lavorarci e a migliorarla. È anche vero che se centottanta lettori aspirano ad essere giurati del nostro premio letterario, qualcosa significa.

Tutto è modificabile, tutto è migliorabile, ma se su una manifestazione sono stati fatti cinque anni di investimenti, ritengo sia dovere morale di qualunque amministratore, qualunque sia il colore della Giunta della quale fa parte, mantenere un impegno preso con la città e che la città mostra di gradire.

Se poi l’evidenza dei fatti dimostrasse che il premio letterario non ha più ragione di esistere, non saremo noi a mantenerlo vivo a forza.

L’invito per tutti, soprattutto per i non giurati ovviamente, è quello di leggere i libri in concorso e venire a partecipare agli incontri con gli autori: troverete un’atmosfera che forse non vi aspettate: si respira cultura, e ciò non fa male.