Tra lavoro e depressione

I fratelli Dardenne convincenti con “Due giorni, una notte”. Bravissima Marion Cotillard.

Quanto è difficile raccontare la realtà attraverso una storia di finzione, cercando di essere i più veri possibile, ma senza annoiare gli spettatori? Lo sanno bene i due fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne che, ormai da vent’anni, portano avanti un cinema scarno, essenziale, realistico, quasi documentaristico, che sfiora spesso il rischio di diventare noioso, banale, troppo poco attrattivo per il pubblico. Si sa, infatti, che il cinema esige tempi veloci, ritmo, azione, una drammatizzazione, cioè, del normale flusso degli eventi della vita vera. Ciò che riesce, quasi sempre, a salvare le opere dei fratelli Dardenne dal pericolo della noia, è la capacità dei due autori di cogliere, nell’ordinarietà e anche nella tragicità delle storie che raccontano, l’essenza dell’anima dei loro protagonisti. In questo senso si potrebbe dire che il loro cinema si avvicina al modello del cinema di Robert Bresson: un cinema “spirituale”, perché disvelatore dell’anima e della verità. Anche la loro ultima fatica, “Due giorni, una notte”, rientra in pieno in questa categoria.

Sandra ha un marito, Manu, due figli e un lavoro presso una piccola azienda che realizza pannelli solari. Sandra “aveva” un lavoro perché i colleghi sono stati messi di fronte a una scelta terribile: se votano per il suo licenziamento (è considerata l’anello debole della catena produttiva perché ha sofferto di depressione, anche se ora la situazione è migliorata) riceveranno un bonus di 1000 euro. In caso contrario, non spetterà loro l’emolumento aggiuntivo. Grazie al sostegno di Manu, Sandra chiede una ripetizione della votazione in cui sia tutelata la segretezza. La ottiene ma ha un tempo limitatissimo per convincere chi le ha votato contro a cambiare parere. I Dardenne affrontano il grande problema dei nostri tempi: la difficoltà ad avere e a tenere un lavoro, la precarietà, piaga sociale dai mille risvolti problematici, che toglie serenità, salute, felicità e dignità alla persona. Ma, a differenza dei film che trattano questa problematica con un punto di vista ideologico (come ad esempio le pellicole militanti di Ken Loach, in cui tutto è raccontato dal punto di vista di “classe”), l’opera dei Dardenne si pone all’altezza degli occhi e del cuore della sua protagonista (una bravissima Marion Cotillard, che abbandona la sua aurea divistica per recitare senza trucco) e ne segue la “via crucis”, alla ricerca di solidarietà e aiuto. Una donna che ha sconfitto ma che sarebbe meglio dire sta ancora lottando contro un male terribile: la depressione, altra piaga sociale dei nostri tempi, che miete tante vittime silenziose e a cui ancora non si dà la dovuta attenzione.

I Dardenne posizionano la loro macchina da presa alle spalle di Sandra e la seguono, silenziosamente, registrandone ogni piccola vittoria, sconfitta, cedimento e speranza. Quello che emerge, a poco a poco, è il termometro di un’anima in difficoltà, la sua essenza più vera, la sua umanità, che trova conforto in un grande punto saldo: la famiglia. Il marito e anche i figli di Sandra, infatti, sono l’unica vera ancora di salvezza per la protagonista, la assecondano in ogni momento e anzi la spronano. Grazie a loro, Sandra compirà il suo “cammino” doloroso presso i suoi colleghi e, alla fine, al di là del risultato che avrà, ciò che troverà sarà la sua dignità, la sua forza, il coraggio di andare avanti ed affrontare di nuovo le sfide, anche terribili, che la complessa vita di oggi ci propone.