Costini: da Melilli una resa agli interessi della Capitale

Debbo dire che se prima di leggere la lettera di Fabio Melilli ai sindaci ero preoccupato per il futuro della sanità reatina, ora sono drammaticamente consapevole che i giochi sono praticamente chiusi, ovviamente in modo drammatico per il nostro territorio. Quando un politico “scafato” e preparato com l’ex presidente della provincia si aggrappa alla sua tecnica retorica, significa che non può parlare, e quindi non può più agire.

Sostanzialmente il segretario regionale del partito di maggioranza relativa alla Pisana, ci dice che è auspicabile che il presidente della Regione Lazio, esponente del suo partito, consideri la particolarità del nostro territorio prima di dare corpo ai provvedimenti di “razionalizzazione” dell’organizzazione sanitaria regionale!

Ora delle due l’una: o è vero che la posizione dell’esponente sabino in seno al suo partito è estremamente precaria, tanto da non permettergli azioni concrete, o sa che le decisioni sono già prese, e non ci sono margini per modificarle.

Io sono uno tra quelli che contestò duramente, pubblicamente e nelle sedi del mio allora partito, il progetto di ristrutturazione del servizio sanitario nella nostra Regione, a partire dall’aberrazione delle macroaree, che di fatto concentrava i centri di cura e decisionali a Roma.

Ma almeno allora la giustificazione (peregrina ed insensata) era che la sanità laziale era commissariata, ed a decidere erano i burocrati del ministero, impedendo alla politica di fare le scelte. Non era del tutto vero, ma almeno c’era una motivazione realistica, di facciata, ma concreta.

Oggi non è più cosi, o almeno non è più così cogente l’azione di “macelleria sociale” messa in moto dal servo di Bruxelles Monti, ed il PD, forte della filiera di potere, avrebbe tutti gli strumenti per poter intervenire in modo più incisivo.

Un favore all’ex Presidente dell Provincia: lasci stare i coomitati scientifici, i tecnici; sono gli stessi che in Gran Bretagna hanno deciso che dopo una certa età non si debbono più operare i pazienti, perché “non economicamente conveneniente”, deficienti con la laurea e spesso una cattedra universitaria, preoccupati più di far emergere le loro astruse teorie, che della salute delle persone.

E lasci perdere anche gli investimenti strutturali, pozzi senza fondo della corruzione, e lì sì degli sprechi, di cui le sale operatorie aperte a Magliano, per poi chiudere l’ospedale dopo pochi mesi, o i cantieri secolari di Amatrice, o le follie del parcheggio del nosocomio di Rieti, sono esempi concreti e visibili a tutti.

Se ci sono soldi si usino per potenziare le strumentazioni, se c’è da razionalizzare, lo si faccia anche attraverso la mobilità pubblica (approvata alcuni mesi fa ma a tutt’oggi praticamente quasi mai applicata) per ridistruibire il personale, attaccando lo schifo degli ospedali e delle Asl romane, dove per poter trovare qualcosa da fare colleghi e personale infermieristico si inventano progetti inutili, la cui unica funzione è far passare il tempo.

La territorialità della sanità la si difende mantenendo le strutture, potenziandole, rendendole funzionali, non delegando ai medici di base compiti che non sono loro, magari per accontentare qualche sindacato di categoria, al fine di rivendere ai suoi iscritti qualche euro in più in busta paga.

Declassare l’Ospedale generale provinciale di Rieti, accettare la logica perversa degli hub romani, significa sprovvedere la nostra terra di servizi primari, inaridire il livello qualitativo dell’intero comparto, costringere a viaggi dispendiosi famiglie già piegate dalla crisi.

Perché un paziente non è la sua malattia, ma un insieme complesso, in cui gli affetti familiari, la possibilità di essere curato senza essere sradicato dal proprio territorio,evitare di essere trasformato in un numero anonimo in qualche mega struttura della capitale, hanno la stessa importanza della qualità tecnica degli operatori.

E che nessuno provi a “pagarci” attraverso l’accreditamento dei posti di RSA: quello è un diritto negato al nostro territorio, e se questo avverrà non sarà una regalia, una concessione, ma semplicemente un tardivo risarcimento di un atto delinquenziale perpetrato da decenni da una Regione al servizio degli interessi della sanità privata romana, sia quando governava la destra, sia quando governava la sinistra.

Concludendo le dichiarazione di Fabio Melilli, suonano, al di là delle belle parole, come una resa incondizionata agli interessi della Capitale ancora una volta sorda ai bisogni delle aree interne, disconosciute ed abbandonate.

Va riconosciuto però a Melilli almeno il coraggio di averci messo la faccia: dove è l’assessore regionale sabino, giovane rampante dell’era renziana? Forse a farsi i selfie mentre si fa la doccia gelata, insieme al pupazzo che abbiamo come presidente regionale.

Ha proprio ragione una mia amica settentrionale: passare dalla battaglia del grano a ai selfie da pagliaccio, è il topos del declino della nostra Nazione.